Una piattaforma petrolifera offshore a Cartagena - Ansa
La Colombia non darà nuovi permessi per la ricerca degli idrocarburi. La dichiarazione, fatta dal presidente Gustavo Petro al Forum di Davos e ribadita dalla ministra per le Attività minerarie, Irene Vélez, non è una sorpresa. L’impegno ad attuare la transizione da gas e petrolio alle energie pulite insieme al no al fracking e allo stop alle miniere a cielo aperto era scritto nero su bianco nel programma con cui il leader ha vinto le consultazioni, sei mesi fa.
Con l’annuncio di fronte ai Grandi dell’economia mondiale, però, lo stop alle concessioni ha avuto eco globale. Si tratta, parola dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), dell’unico modo per raggiungere zero emissioni nette nel 2050. Finora, però, i produttori di idrocarburi hanno ignorato l’avvertimento. Nessuno dei 14 aderenti all’alleanza siglata alla Cop26 di Glasgow è un Paese petrolifero.
Il presidente Petro a Davos - Ansa
La Colombia è il primo a decidere di lasciare nelle viscere della terra “l’oro nero” da cui dipende il 40 per cento delle esportazioni nazionali con un ricavo, nel 2020, di 7,4 miliardi di dollari. Il settore impiega quasi 110mila lavoratori. Sebbene i 117 contratti già in essere non verranno compromessi, trovare un’alternativa è una sfida non da poco per l’esecutivo progressista. L’idea è quella di puntare su rinnovabili e turismo.
Le idroelettriche producono già il 70 per cento della corrente e, entro il 2030, si arriverà al 100 per cento. Gli investimenti e il potenziamento di altri settori, come l’agricoltura, l’agro-ecologia e le tecnologie pulite saranno finanziate con un fondo ad hoc, alimentato con un’imposta alle industrie. Molti economisti suggeriscono di utilizzare anche i proventi delle esenzioni e benefici fiscali concessi ai produttori di fossili, che rappresentano 1,3 miliardi