Per il ballottaggio di domenica 17 in Cile, i media hanno coniato una nuova espressione: il «voto-finish». Perché fino al conteggio dell’ultima scheda sarà difficile prevedere il risultato dato il testa a testa fra i due sfidanti: Sebastián Piñera, ex presidente e candidato del centrodestra, e Alejandro Guillier, leader del centrosinistra. Le ultime rilevazioni di “Cadern” e “Criteria” parlano di «pareggio tecnico», con un vantaggio per l’ex capo di Stato di meno del 2 per cento. Secondo uno studio di JP Morgan, a decidere il prossimo inquilino della Moneda potrebbe essere addirittura una manciata di «tremila voti».
A quattro settimane dal primo turno, del 19 novembre, il ribaltamento di prospettive è drastico. Allora, gli analisti avevano scommesso su una comoda vittoria di Piñera, con uno stacco tra i dieci e i venti punti sul più prossimo dei sette rivali. In effetti, quest’ultimo, con il 37 per cento delle preferenze, ha “sorpassato” di 14 punti il secondo classificato, Guillier, fermo al 23 per cento. Una quota, però, non sufficiente per evitare la seconda tornata.
E il conseguente «gioco delle alleanze», responsabile dell’attuale incertezza. Il fenomeno è, per certi versi inedito, in Cile, a lungo “bipartitico” dopo il ritorno della democrazia. A scompaginare le carte sono stati due fenomeni. In primo luogo, l’implosione di uno degli attori storici della politica nazionale del post-dittatura: la Concertación, poi diventata Nueva Mayoría, alleanza di socialisti e democristiani che, stavolta, s’è presentata divisa. Al “terremoto” nel centrosinistra si è sommato l’effetto della nuova legge elettorale, del 2015, che ha aperto spazi di partecipazione ad altre formazioni. Come il Frente Amplio, espressione «partitica » dei movimenti sociali, guidato da Beatriz Sánchez, che è stata la vera sorpresa del primo turno. Con circa il 21 per cento delle preferenze, ha rischiato di strappare a Guiller la seconda posizione. Ora, la sfida di quest’ultimo, per avere qualche chance su Piñera, è provare a ricomporre il puzzle. Un compito tutt’altro che facile.
Proprio la designazione di Guillier – una “new entry” della politica cilena – come rappresentante di Nueva Mayoría aveva determinato la scelta della Democracia cristiana (Dc) di correre sola con Carolina Goic. Nonché un forte mal di pancia in casa socialista, che puntava sulla candidatura di Ricardo Lagos. Nelle ultime quattro settimane, Guillier, dunque, ha provato a tessere reti con la Dc, con i socialisti “ribelli” ma la vera e propria spina nel fianco è stato il Frente Amplio. Durante la campagna, tale partito era stato molto critico con Nueva Mayoría, considerata una delle espressioni della «vecchia politica». Il che spiega perché fino all’ultimo, Sánchez abbia evitato di pronunciarsi in modo netto sul ballottaggio. Solo il 5 dicembre ha garantito, di malavoglia, l’appoggio a Guillier. Resta da vedere, però, se i suoi elettori – in gran parte ostili all’ex Concentración – la seguiranno. Il rappresentante del centrosinistra ha provato a “corteggiarli” radicalizzando, a fasi alterne, la propria retorica. Senza, però, spingere troppo sull’acceleratore per «consegnare al centrodestra» il 6 per cento della Dc. In pratica una quadratura del cerchio che potrebbe consentire a Guiller di arrivare alla Moneda ma difficilmente gli permetterà di governare.
Anche l’ex presidente Piñera, da parte sua, è in bilico tra la necessità di recuperare l’ultradestra di José Antonio Kast – che ha ottenuto l’8 per cento al primo turno –, senza però alienarsi le simpatie dell’elettorato più moderato e provando ad allargare la propria base ai votanti democristiani.
Mentre gli sfidanti si affannano in complesse acrobazie politiche, a determinare l’esito del voto di domenica potrebbe essere una «variabile esterna» ovvero l’astensione. Al primo turno è stata del 54 per cento. E questa volta – sostengono gli esperti in base alla rilevazioni demoscopiche dell’ultima ora – potrebbe essere perfino maggiore.