(Ansa)
La prima è Juana. Si avvicina timida alla fine della catechesi e domanda: «Pensa che avremo gli aiuti umanitari già questo fine settimana? ». Appena la sente, si accosta anche Carmen: «Mio figlio ha la febbre alta, ma gli antibiotici stanno arrivando», afferma, mostrando il sorriso sdentato. «E come ci organizziamo per distribuirli?», incalza Raúl, maglietta strappata e fisico atletico. «Dicono che sono pronti a entrare. Non ci metteranno molto per raggiungere la capitale, vero?», chiede, con tono di supplica, Eduardo. In pochi minuti, suor Ana María González è circondata da un capannello di persone. Ognuno vuole sapere ma soprattutto cerca la conferma della fine imminente di un incubo dai molti nomi.
«Guerra economica orchestrata dagli Stati Uniti», ripete come un disco rotto Nicolás Maduro. «Emergenza umanitaria», la definiscono all’unisono l’opposizione, gli organismi internazionali, la società civile, Chiesa inclusa. I 36mila abitanti di Lomas de Baruta parlano semplicemente di «lotta quotidiana per la sopravvivenza». Una battaglia sfiancante per conquistare – dopo ore di fila – un barattolo di lenticchie, un panino, una confezione di riso.
«A shampoo e dentifricio ho rinunciato ormai da tempo», scherza Carmen ora che vede la soluzione vicina. Esattamente a un migliaio di chilometri di distanza. Là, lungo il confine colombiano – oltre che su un’isola non precisata dei Caraibi – il presidente autoproclamato Juan Guaidó ha annunciato l’apertura di due centri di raccolta di viveri e medicine destinati dalla comunità internazionale al Venezuela in ginocchio. Il governo Maduro rifiuta, però di riceverli. Anche ieri, il Parlamento – sotto il controllo dell’opposizione e guidato da Guaidó – ha rivolto un appello ai militari perché non blocchino i convogli approvando poi una legge che dovrà (una volta «caduto Maduro») disciplinare la transizione. Nel frattempo, la comunità internazionale si muove: l’Ue ha appena annunciato la creazione di ufficio umanitario a Caracas.
Gli aiuti sono stati uno dei cavalli di battaglia del leader antichavista fin dalla marcia del 23 gennaio. Una mossa abile. La strategia ha consentito all’opposizione – troppo a lungo impegnata in sterili contese interne – di incassare il sostegno dei settori popolari. A cui concetti astratti come «violazione della libertà di espressione» e «tutela della democrazia», dicono poco. Conoscono fin troppo bene, però, la miseria.
Gli abitanti di Lomas de Baruta – e delle altre centinaia di baraccopoli di Caracas, in cui abita almeno il 70 per cento della popolazione – la vivono da ben prima di Maduro e Chávez. Per questo, hanno creduto alle promesse dell’istrionico ex paracadutista. «Il punto è che ne ha mantenute ben poche. Anzi, la situazione è ulteriormente peggiorata fino a raggiungere un livello insostenibile. E, a farne le spese, sono proprio i poveri», spiega suor Ana María, prima donna designata vicario episcopale dell’arcidiocesi di Caracas lo scorso anno.
La Missionaria della misericordia, coordina le attività dei 15 vicariati affidati alle congregazioni religiose femminili. «Coincidono con le zone più emarginate della capitale. Vedo la sofferenza della gente e mi spezza il cuore. Mai eravamo arrivati a questo punto», sottolinea. Ora, però, lo spettro degli aiuti ha riacceso la speranza a Lomas. «Il che mi preoccupa. Non vorrei fosse l’ennesimo miraggio, un’altra “alka seltzer” sociale». Anche Caritas Venezuela teme una bruciante delusione collettiva. «Ci sono troppe aspettative. E troppe necessità », ammette la direttrice, Janeth Márquez.
Lomas de Baruta segna la frontiera tra le “due Caracas”. Quella est – per una bizzarra inversione dei punti cardinali della Guerra fredda –, dove vivono i settori medio-alti (seppur le baraccopoli non manchino), da sempre vicini all’opposizione. E la metà occidentale, concentrato di casupole avvinghiate ai fianchi delle colline e bastione storico del chavismo. Nell’ovest si trova La Vega. Agglomerato di baracche e casermoni popolari, in cui risiedono 120mila persone. La metà si agglutina intorno alla parrocchia di San Alberto Hurtado, a cui i gesuiti garantiscono assistenza spirituale e materiale, in particolare nel settore educativo. Uno sforzo titanico ormai.
Da gennaio, il loro liceo è rimasto senza insegnanti. Impossibile per loro raggiungere la scuola senza più trasporto pubblico. Alcuni docenti hanno provato a autofinanziarsi con dei taxi collettivi ma ora hanno finito i soldi. Altri hanno lasciato il Paese. Sono molte le case vuote da queste parti. Chi è rimasto aspetta gli aiuti. Con il governo, i residenti hanno rotto dal 2015 quando a La Vega vinse l’opposizione. Caracas, la città spezzata tra est e ovest, trattiene unita il fiato. La caotica capitale – dove la povertà ufficiale è al 17 per cento e quella reale all’87 – ha ridotto al minimo le funzioni vitali, come un malato in coma. «I suoi avvenimenti sono stati così rapidi e le devastazioni tali che quasi l’hanno ridotta a un’assoluta indigenza e una spaventosa solitudine », scriveva l’eroe nazionale Simón Bolívar nel 1815. Due secoli dopo, la descrizione calza ancora a pennello.