L'enorme portacontainer di traverso nel canale di Suez sta bloccando il commercio marittimo tra Oriente e Occidente - Ansa / Epa
Siamo arrivati al quinto giorno di blocco nel Canale di Suez ma ancora non è arrivata la svolta attesa. La corsa contro il tempo per sbloccare il Canale di Suez, una delle principali arterie del commercio mondiale ostruito dal gigantesco portacontainer Ever Given incagliatosi martedì su una delle sue sponde, procede ma appare in affanno. Nuovi tentativi di liberare la "balena spiaggiata" con i suoi 400 metri di lunghezza e 219 tonnellate di carico, sono falliti. E le 321 navi ferme all'ingresso dei dei due lati del canale, che movimentano quasi 10 miliardi di dollari al giorno, aspettano ancora. E ci sono armatori che, per aggirare il blocco e il conseguente ingorgo di centinaia di cargo, stanno valutando di cambiare rotta, optando per il più lungo e costoso periplo dell'Africa.
È la rivincita della geografia. Basta la sventatezza di un timoniere e va in crisi a catena tutto il mondo. Quella portacontainer messa di traverso, beffardamente incastrata fra i due lembi del canale di Suez tanto da impedirne momentaneamente la navigazione è più eloquente di qualunque trattato di geopolitica. Perché con la sua mole sgraziata e rugginosa la Ever Given sta lì a ricordarci che nessuna nuova tecnologia, nessun sofisticato dispositivo, nessuna transazione nel mondo immateriale del Web può sostituire l’importanza cruciale di quegli stretti che sono entrati nella storia degli imperi e delle potenze e che su di essi hanno costruito fortune, dichiarato guerre, sacrificato vite umane e velleità politiche. Suez, Bab el-Mandeb, Malacca, Hormuz, Panama, il Bosforo e i Dardanelli, Gibilterra, Oresund fra Norvegia e Danimarca.
Sono i famigerati chokepoints – qualcuno li chiama appropriatamente anche “colli di bottiglia” – quei passaggi obbligati attraverso i quali il mondo comunica via mare e da dove transita l’80% delle merci del pianeta e il 54% del grano e dei fertilizzanti. Padroni del mare, già duecento anni fa gli inglesi affiancavano all’impero che si stendeva ai quattro angoli del mondo un’accorta politica degli stretti, che assicurava alla corte di St.James’s il virtuale controllo delle vaste colonie e degli snodi marittimi più importanti del mondo.
Suez – che la corona britannica perdette nel 1956 quando il presidente Nasser decise di nazionalizzare il canale – ne è un esempio lampante: attualmente ci passa quasi il 10% del commercio mondiale, il 9% del greggio, l’8% del gas liquido. Un fiume inarrestabile e impetuoso di uomini, merci, navigli, prodotti. Tanto da aver indotto la Cina a finanziare l’Egitto per raddoppiarne una parte e fare della zona del canale uno hub privilegiato per le merci di Pechino e una testa di ponte formidabile nel Mar Mediterraneo. Seguiti a ruota da Mosca, attivissima nella costruzione, sempre in Egitto, di una Russian Industrial Zone, simile a quella cinese. Ma l’incaglio subito dalla più trafficata via d’acqua sta lì a dimostrare come siano ancora gli stretti, con la loro immemore iconostasi, a separare mondi e a metterli in comunicazione. Dipende da loro e da chi li governa.
Antenna ultrasensibile della loro salute è il prezzo del greggio: il fermo-immagine della Ever Given, con i suoi 21mila container e le sue 220mila tonnellate ha prodotto nel giro di poche ore un rialzo del 5% dei prezzi, portandolo attorno ai 60 dollari a New York e oltre 62 dollari il Brent, esattamente come accade ogni volta che si verifica qualche incidente o qualche attentato al naviglio commerciale nel Golfo Persico, dove transitano 17 milioni di barili al giorno.
Ma ogni ora di ritardo nelle consegne è una scintilla che può dar fuoco ai prezzi al consumo. Quelli dei noli sono già cresciuti: circumnavigare l’Africa come accadeva un secolo e mezzo fa comporterebbe ritardi e danni sensibili, soprattutto nella componentistica elettronica. Quella cioè che tiene collegato il mondo. E sono proprio gli stretti a garantire quella circolazione continua dove il trasporto via mare rimane predominante: ogni giorno i mari sono solcati da un milione di navi tra commerciali e militari.
E a testimoniare come la geopolitica degli Stretti non sia per nulla tramontata, la reazione di Putin all’ingorgo di Suez è stata rapida quanto prevedibile: da Mosca è stato rilanciato il Severny Morskoy Put, il famigerato Passaggio a Nord-Est, la rotta nordica speculare allo storico (e oggettivamente troppo costoso) Passaggio a Nord-Ovest che farebbe risparmiare 7.400 chilometri stendendosi dal Mare di Kara a est della Novaija Zemeliya al Mare di Bering lungo la costa artica della Siberia. Percorso un tempo proibitivo anche con l’ausilio delle rompighiaccio, ma divenuto praticabile nonostante qualche rischio grazie (o a causa) al riscaldamento globale che ha ridotto l’estensione dei ghiacci artici.
La stessa Belt Road Initiative (la Via della Seta cinese) è la plastica risposta di terra alla dipendenza di Pechino allo Stretto di Malacca, il secondo varco mondiale dopo Hormuz, che Washington virtualmente controlla. Basta chiuderlo un mese e l’economia cinese viene strozzata. Non a caso si chiama «geopolitica degli Stretti». Una variante planetaria del Grande Gioco fra le potenze.
Il canale di Suez bloccato - Reuters