L'uccisione di monsignor Oscar Romero, il 24 marzo 1980
Uno spiraglio ha crepato la cortina di impunità che, negli ultimi quattro decenni, ha tenuto in ostaggio El Salvador. Anche al termine, nel 1992, del conflitto civile, la pace, imposta dalla pressione internazionale, s’è basata sull’oblio per crimini e criminali che spezzarono almeno 80mila vite. Inclusa quella dell’arcivescovo della capitale, Óscar Arnulfo Romero, «colpevole» di difendere la vita e la dignità dei poveri oppressi dalla dittatura, in nome del Vangelo. Per questo, la Chiesa l’ha dichiarato santo il 14 ottobre.
Il processo canonico è stato lungo, ma quello penale è cominciato solo ora: 38 anni e sette mesi esatti dall’omicidio, avvenuto sull’altare della cappella della Divina Provvidenza il 24 marzo 1980.
I nomi di buona parte dei colpevoli sono scritti nero su bianco nel rapporto elaborato dall’Onu fin dal 1992. Nessuno di loro, però, era stato giudicato da un tribunale salvadoregno. Fino a due giorni fa. Quando il magistrato Rigoberto Chicas ha emesso un mandato di cattura internazionale per Álvaro Saravia, uno degli ex militari implicati nell’assassinio. Nonché l’unico imputato nel primo tentativo di processo, cominciato nel 1987 e congelato sei anni dopo dalla legge di amnistia.
Da allora, Saravia ha lasciato il Paese. Prima si è rifugiato in California. Poi, nel 2004, la Corte di Fresno ha avviato una causa civile contro di lui per l’omicidio Romero: da allora è latitante. Nel frattempo, la situazione nella più piccola nazione americana è cambiata. Il 13 luglio 2016, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’inapplicabilità dell’amnistia per i crimini più gravi. “Costringendo” El Salvador a fare i conti con il proprio doloroso passato. Il “caso Romero”, però, riaperto formalmente il 18 maggio 2017 – grazie anche alla pressione della Concertación Monseñor Romero – era rimasto nel limbo.
«Per questo, la decisione del giudice Chicas è un passo significativo. A cui ha contribuito la canonizzazione e l’autorità morale del Vaticano. È, però, solo l’inizio. Molte altre persone indicate dall’Onu e devono essere ascoltate», spiega padre Fredis Sandoval, responsabile della Concertación. Il rapporto della Commissione per la verità menziona, oltre a Saravia, Eduardo Ávila, Fernando Sagrera, il figlio dell’allora presidente, Mario Molina, nonché Roberto D’Aubuisson, considerato «l’autore intellettuale» dell’omicidio e morto di cancro pochi mesi dopo la fine della guerra.
Come pure è deceduto Ávila. «Gli altri, però, no e devono essere portati a testimoniare e dire la verità – prosegue padre Fredis –. Come dice da tempo la Chiesa salvadoregna, questa è cruciale per curare le ferite. Insieme alla giustizia. Una giustizia saggia, di tipo riparativo».