Non sarà una Yalta 2. E di certo non come la intende Vladimir Putin. Fra i leader di oggi e i protagonisti di settantasette anni fa non vi è più alcuna somiglianza. Non con Joe Biden, che non è accostabile né per temperamento né per capacità di imporre regole nuove a Franklin Delano Roosevelt. E nemmeno l’Europa di Macron e di Boris Johnson (le due potenze nucleari del continente) può prendere il posto di Winston Churchill. Solo Putin, per quella funambolica propensione all’azzardo può vagamente assomigliare (e forse nel segreto del suo cuore ci terrebbe) a Stalin.
La Yalta 2002 insomma è più un sogno proibito che una realtà. Ma ora che siamo davvero sull’orlo di un conflitto dalle conseguenze imprevedibili si staglia con chiarezza la necessità di approdare a un accordo, a un compromesso, a un qualcosa che consenta alla Russia di non perdere la faccia e alla Nato e a Washington di non perdere l’onore. Un’intesa, insomma, che sorga da quel lento annusarsi fra Washington e Mosca, ora affidato ai protagonisti di seconda fila ma di prima qualità come Blinken e Lavrov, ora dal dialogo diretto fra la Casa Bianca e il Cremlino. Con un terzo ineludibile coprotagonista: l’Europa. Un’Europa che per lungo tempo ha latitato ma che ora è obbligata a inventarsi anch’essa una dottrina, la si chiami Dottrina Macron o più semplicemente una chiamata alle responsabilità collettive dell’Alleanza Atlantica. La vera Yalta, quella che costringe protagonisti e comprimari a una doccia fredda di realismo è proprio questa: non tanto una spartizione in zone di influenza, perché di fatto ci sono già, quanto una obbiettiva ricognizione sui costi e i benefici di un’escalation militare. Il che conduce a un crudo verdetto per entrambi gli schieramenti: Putin non si può permettere i costi politici e soprattutto economici di una campagna militare quale sarebbe l’invasione dell’Ucraina: la Nato (che peraltro non ha obbligo statutario di intervenire a fianco di Kiev) non si può permettere uno scontro aperto sul campo perché la disparità di forze sul terreno gioca enormemente a favore della Russia. Ci sono, è noto, livelli intermedi. Come quell’«incursione minore» cui ha imprudentemente alluso giorni fa il presidente Biden, ovvero l’invasione della città di Mariupol nel Mar di Azov, che consentirebbe di collegare la Crimea (già annessa nel 2014) alle repubbliche autoproclamate di Donetsk e Lugansk nel Donbass. Ma anche quello per Washington sarebbe, uno «sconfinamento intollerabile». E allora si ritorna a Yalta, o meglio, al simulacro di un accordo che forse sarebbe più giusto chiamare Helsinki 2, con esplicito riferimento a quella conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa siglata nel 1975 anche da Mosca, i cui principi sono peraltro tuttora in vigore. Da lì forse, da un quadro condiviso per comuni interessi – strategici, economici, geopolitici – può farsi strada un’intesa. Non spartitoria, soltanto di cauta convivenza. Il mantra russo del resto è sempre il medesimo. Dice Lavrov, perfetto epigono del leggendario Gromyko: «Vorrei ancora una volta ricordare a tutti che la Russia non intende invadere l’Ucraina». Il che vuol dire esattamente il contrario. Non è casuale la replica di Blinken: «Mosca dimostri che intende rinunciare all’invasione. In caso contrario ci sarà una risposta rapida e severa». Mostrati reciprocamente i muscoli, si ritorna a trattare. Biden ha bisogno di mano libera per arginare la Cina e un simulacro di pace nel teatro europeo. Qualcosa sul terreno si dovrà lasciare, da ambo le parti. Si tratta solo di stabilire cosa. Nessuno ha voglia di morire per Danzica.
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