I diritti umani, le guerre scomode, le stragi lontane da noi, spesso sono come la polvere nascosta sotto il tappeto: non si vede, quindi non esiste. Un massacro in Colombia, durante il lockdown quando gli attivisti sono costretti a rimanere in casa, ruba forse qualche decina di righe sui giornali. I sanguinosi raid jihadisti a bordo di motociclette, come le “stese” di triste e camorristica memoria, nei villaggi del nord nigeriano sono consuetudine. L’omicidio per strada, davanti ai figli, di un attivista anti-narcos messicano, va solo ad arricchire la truce contabilità di un male incurabile.
Di esempi ce n’è a decine, di denunce a centinaia. Di azioni per contrastarle forse una mezza dozzina ogni centinaio di segnalazioni. Il primo morto di ogni guerra, si dice, è la verità. Non poterla raccontare da vicino (come nel caso del Tigrai, solo per ricordare l’ultimo esempio di “copertura” delle informazioni) è un modo efficace per tenerla lontana dai riflettori.
Chi tenta di scavare, di approfondire, di raccontare viene trafitto dal fuoco incrociato dei lealisti e degli oppositori. Che in fondo altro non è che la maniera migliore per mistificare la realtà di fronte al buio di informazioni. Insomma, le guerre aumentano, le vittime con loro. E racconti si fermano alla scorza, restano a quando si vuole venga detto. Inutile stracciarsi le vesti e denunciare la scoperta dell’acqua calda: chi controlla le informazioni decide che cosa è «vero» e cosa invece è «bugia».
Anche le reti internazionali, i social media e le video-parate esaltano spesso l’effetto, ignorano la causa e cercano invece qualcosa che «attragga il fruitore». Chi è invece in prima linea, come i volontari delle Ong, come i missionari, come quei pochi cronisti che riescono ancora a farlo come un tempo, riesce in qualche modo ad aprire una crepa. Piccola, ma inesorabilmente efficace.
Paga con la propria vita a volte, viene irriso, querelato e finisce in galera. L’ultimo conteggio, in difetto, fatto dall’organizzazione Committee to Protect journalist parla di 293 reporter chiusi in gabbia. In Cina, nel Myanmar, in Egitto, e nelle patrie galere dei tanti satrapi che il mondo tiene ancora in sella. Le guerre ci saranno sempre, le vittime pure.
Ma bisogna continuare a contarle e raccontarle. Come seguire le mosse dei mercanti di armi che le alimentano, gli interessi multinazionali che le scatenano e la rinnovata geopolitica dei blocchi che tutela davanti alle istituzioni chi le ha volute.
Servirà a poco? Tentare di farlo si chiama esercitare uno dei princìpi fondamentali contenuti in quella Dichiarazione universale dei diritti umani che, il 10 dicembre (come oggi) del 1948, restituì il genere umano al suo rango dopo l’abbruttimento di due guerre mondiali. Quel principio si chiama libertà.