mercoledì 19 agosto 2020
Un solo colpevole, diverse riflessioni da fare
Una bandiera libanese fuori del tribunale dell'Aja, in attesa della sentenza

Una bandiera libanese fuori del tribunale dell'Aja, in attesa della sentenza - Ansa

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Non ci sono prove del coinvolgimento di Hezbollah né della Siria nel brutale assassinio di Rafiq Hariri e della sua scorta. Non c’è un mandante e non ci sono colpevoli punibili, visto che tre dei quattro imputati cui il Tribunale speciale per il Libano attribuiva la responsabilità materiale dell’attentato del giorno di San Valentino del 2005 sono stati assolti per insufficienza di prove e il quarto, Salim Ayyash, l’unico ritenuto responsabile di tutte le accuse, è rimasto come gli altri al sicuro nell’impenetrabile hezbollahland che si estende dalla periferia meridionale di Beirut fino al confine con la Galilea. La sentenza, resa nota ieri pomeriggio e per la quale si sono spesi 15 anni di indagini e quasi ottocento milioni di dollari, ha quanto di più filisteo e farisaico si potesse immaginare.

Ma proprio per quel suo vacuo possibilismo («La Siria e Hezbollah potrebbero aver avuto motivi per uccidere il premier») ha il pregio politico di criogenizzare la vicenda amputandola di quel capro espiatorio – il Partito di Dio guidato dallo sceicco Nasrallah – che avrebbe finito per incendiare il Paese, già in ginocchio per la terribile esplosione di quindici giorni fa (casualmente, alla vigilia della sentenza…) e per il default politico ed economico.

Preso alla lettera, il dispositivo del Tribunale (2.500 pagine) vorrebbe convincerci che un unico cittadino di credo sciita e di militanza hezbollah avrebbe organizzato da solo e senza alcuna copertura da parte dei meglio attrezzati servizi di intelligence siriani e iraniani un sofisticatissimo attentato alla vita del premier libanese, laddove due dei tre coimputati si sarebbero limitati a sviare le indagini. Nessuno ci crede e tutti fanno finta di crederci, anche se rimpianti, rancori e polemiche non mancheranno.

Eppure dietro il sudario della sentenza di ieri s’intravede la progressiva smobilizzazione dell’influenza iraniana nella regione. Gli hezbollah, lo sappiamo bene, sono emanazione diretta di Teheran e hanno agito da sempre sia come braccio armato degli ayatollah sia come domestico cane da guardia in Libano, allestendo una sorta di anti-Stato all’interno del Paese dei Cedri. Anche la Siria faceva parte di quella mezzaluna sciita che si stendeva da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir ez-Zor, Palmira, Damasco, Latakia garantendo all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente, un cuneo che (grazie anche al fattivo apporto russo e alla protezione assicurata da Putin al regime di Bashar al-Assad) penetrava nel mondo sunnita annodando i propri rapporti anche con Hamas a Gaza fino a spingersi nello Yemen.

Questo mosaico ora è in crisi, e lo era anche prima dell’arrivo del Covid, del default libanese e della fatale esplosione del porto di Beirut. La crisi sciita ha due facce, quella interna e quella regionale. È in crisi il mondo hezbollah in Libano e la popolarità di Nasrallah è in vistoso calo, suffragata anche dal sospetto che il materiale esplosivo stivato per anni nei magazzini portuali fosse parte integrante dell’arsenale del Partito di Dio. Ma in particolar modo è in crisi la Mezzaluna iraniana, colpita al cuore del recentissimo accordo fra Israele e gli Emirati del Golfo, che con il sodalizio già in atto con l’Arabia Saudita serra il cerchio intorno alle mire di Teheran, ridimensionandone l’influenza regionale e costringendo i vertici politici e religiosi iraniani a un totale ripensamento della propria strategia.

La mancata accusa diretta a Nasrallah e agli ayatollah non cambia assolutamente nulla. Il Libano, così come la questione palestinese (fatalmente passata in secondo piano dopo le intese fra Netanyahu, gli emiri e Riad) appaiono due entità bisognose di urgente rifondazione. Il ridisegno stesso del risiko regionale lo impone. La sentenza dell’Aja, pur nella sua elusiva ambiguità, non fa che confermarlo.

Inutile indignarsi dunque per questo verdetto. Era già pronto da mesi (e in questo Nasrallah e gli hezbollah avevano ragione) e chi contava su un lancinante atto d’accusa nei confronti della Siria e dei suoi manovratori iraniani peccava di troppo ottimismo, per non dire che era un illuso. Alla fine la Realpolitik ha avuto la meglio sulla giustizia. Ma questo in fondo accade quasi sempre

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