Le rovine della Ciitadella di Aleppo (Ansa)
La scritta «Believe Aleppo» è ancora all’ingresso della Cittadella. Sulla torre, c’è un Assad quasi sorridente. Sul lato opposto, un caffè con la musica a tutto volume non riesce a distrarre da quel che c’è davanti alla foto gigante: le voragini delle esplosioni si sono mangiate una moschea, un famoso hotel, uffici, il 70 per cento della città vecchia. Di chi è Aleppo? «All’inizio, la parte povera della città si è avventata contro la borghesia aleppina. I primi attacchi dell’opposizione sono stati per prendersi le fabbriche. Come una vendetta», spiega una ragazza. «Dicono che anche la Turchia è venuta a rubare i macchinari, ma voleva prendere la città».
La “Milano della Siria”. La città “del fare”, i ristoranti usati nei video promozionali per fare propaganda all’estero. L’alta borghesia sunnita (l’80% della cittadinanza) che sostiene il regime. Le industrie tessili. I giardini usati come cimiteri. La moschea degli Omayyadi in ricostruzione. Riconquistata da governativi, Russia e truppe iraniane a dicembre 2016, dopo 30mila morti e 200mila sfollati, per quattro anni Aleppo è stata divisa in due, col centro e l’est prima in mano a ribelli e milizie islamiste e poi assediata e rasa al suolo.
«Mia figlia è morta perché con l’assedio in ospedale non arrivava il farmaco di cui aveva bisogno – dice una donna in nero –. Porto il lutto da due anni. Si era fidanzata una settimana prima di morire». Anche nei ricchi quartieri ovest, a Shaba e Halab al-Jadida, e dove troneggia l’università che sembra militarizzata, sono arrivati razzi. Perdute le fabbriche, i cristiani hanno venduto le case e sono partiti. Partiti anche dai quartieri popolari: Sulaymaniyah, Azizieh, dove sono tornati molti musulmani e la sera, quando le famiglie passeggiano, ammucchiati a terra o appesi agli alberi si vendono i vestiti e gli oggetti rubati dalle case distrutte.
Anche l’attivissima parrocchia di San Francesco, che a tutti distribuisce pacchi alimentari, fa microcredito, finanzia cure e ricostruzione delle case, ha il cruccio degli addii: «Deve restare qui e viva, la comunità». La verità è che Aleppo senza lavoro non riparte. «Le banche chiedono i soldi del mutuo delle case anche se non ci sono più», dice Cristina, armena, a Midan. Il marito ha perso il lavoro, lei fa lavoretti con stoffe e perline. Sul tavolo in terrazza, tra decine di gabbiette di uccelli, la passione di lui, sistema i piccoli braccialetti che vende. «Sono rimasta sei mesi con il Daesh a 50 metri da casa mia». Da sotto arriva la vitalità del mercato e delle officine meccaniche armene, in mezzo a quei palazzi con gli angoli dei solai spezzati e in verticale, colossali nella loro rovina, che non cadono mai. «Vorrei venire con te in Europa e studiare come attrice – dice una ragazzina mentre indica le macerie più impressionanti –. Non mi fanno paura questi massi rovesciati». Lei però non ha visto l’asfalto dei quartieri che più a sud-est è esclusivamente polvere, rigagnoli e immondizia: al-Zabdiya, Bab al-Hadid, Aqyul, Bustan al-Qasr, Shaar, Fardous. Periferie già povere in cui 200mila civili hanno provato una fame nera durante l’assedio governativo.
Distruzione sistematica da parte dell’Aviazione russo-siriana, poca acqua e poca elettricità nonostante la riconquista oltre un anno e mezzo fa. Al piano terra di molti palazzi hanno messo una saracinesca e hanno riaperto un negozio. Qualcuno dorme dentro un moncone di appartamento, coi teli dove manca il muro. Ma succede solo ai più fortunati. Il dramma sono i bambini orfani o quelli abbandonati perché figli di jihadisti. Vivono in strada, dormono dove possono. Si stanno pianificando progetti per salvarli, ma qualcuno dice che il regime ostacola l’iniziativa e bisogna aggirarlo. Qui è più nera la notte aleppina. È un muro fluido e immobile, che non avvolge ma aspetta, pronto alla slavina. Certe sere, nei quartieri a nord arriva il rumore dei razzi di al-Zariya, dove si combatte. Qualche colpo fa tremare forte i vetri.