domenica 20 ottobre 2019
Agnes Chow, l'icona femminile della rivolta, non si «sente di condannare» chi ha reagito con la forza alla polizia. Rispetto a cinque anni fa «c'è più violenza, più rabbia, più disperazione»
Cattolica, studi dalle Canossiane e poi all'Università Battista di Hong Kong, Agnes Chow Ting è dal 2014 l'icona femminile della contestazione

Cattolica, studi dalle Canossiane e poi all'Università Battista di Hong Kong, Agnes Chow Ting è dal 2014 l'icona femminile della contestazione

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«Per scelta, convinzione e tradizione siamo un movimento non violento. Per molti mesi abbiamo portato in piazza milioni di persone, manifestando pacificamente e chiedendo al governo cose molto semplici e concrete. Non ci hanno ascoltato, ci hanno deriso, ci hanno detto di tornare a casa, a scuola, in ufficio. Poi hanno cominciato a trasformare la nostra isola felice, il nostro Paese libero e democratico in uno stato di polizia. Non si tratta di essere violenti, si tratta di difenderci dalla violenza. La violenza di una polizia che non è più sotto controllo, che non fa più il suo lavoro, per la quale era famosa in tutto il mondo, quello di mantenere l’ordine pubblico proteggendo i cittadini e rispettando i loro diritti. Ora ci picchia, ci arresta, ci tortura. E ci spara addosso. È già successo, succederà ancora. Dobbiamo difenderci, in qualche modo. Io non ho ancora partecipato a iniziative di questo genere, ma non mi sento di condannare chi l’ha fatto e non escludo di prendervi parte, se la situazione continuasse a precipitare». Agnes Chow, 22 anni, è uno dei “volti” più noti del movimento senza leader che oramai da oltre quattro mesi sta cercando di ottenere una sempre più improbabile assicurazione per il futuro di Hong Kong. Dopo il 2047, quando cioè sarà finito il periodo “di passaggio”, la formula «un Paese due sistemi» garantita da Pechino nell’oramai lontano 1997, al momento del ritorno formale dell’ex colonia britannica sotto la sua sovranità. Quando Hong Kong finirà di essere uno dei centri finanziari più importanti del mondo e diventerà una delle tante metropoli cinesi, e neanche tra le più importanti.

Su un video corrono le immagini di gruppi di mascherati che assaltano locali, spaccano vetrine, danneggiano i bancomat e aggrediscono, non solo verbalmente, una ragazza locale, rea di averli apostrofati in mandarino, la lingua che si parla a Pechino. Scene sempre più frequenti, qui a Hong Kong, scene che non fanno certo bene al “movimento” e che oltre a legittimare in qualche modo la repressione della polizia stanno facendo perdere consensi e solidarietà da parte della popolazione.

«Questo non è vero – ribatte Agnes, ragazza cattolica, in “politica” da quando, a 14 anni, ha organizzato le proteste contro l’introduzione dell’educazione patriottica come materia obbligatoria nelle scuole superiori – questo è quello che scrivono i giornali, quasi tutti asserviti a Pechino. Ma non è così. La gente è con noi, e lo è proprio e soprattutto per la questione della violenza della polizia. Qui non siamo abituati a queste scene. È dall’epoca del colonialismo che la gente non aveva più paura della polizia. Era uno dei fiori all’occhiello della nostra società. Avevi un problema, anche personale, andavi da loro e ti sentivi protetta. Ora abbiamo il terrore di cadere nelle loro mani. Io sono stata arrestata tre volte, con me che sono una persona nota si sono limitati a darmi qualche gomitata e ad insultarmi, ma ad altri ragazzi e ragazze è andata molto peggio. Torture vere e proprie, violenze sessuali. Qualcuno è sparito. Non c’è mica bisogno che arrivi l’Esercito Popolare cinese, il nostro governo si sta già dando da fare, Pechino non ha bisogno di sporcarsi le mani … ci pensa Carry Lam. Con la chiusura della metropolitana alle 20, ad esempio, ci hanno di fatto imposto il coprifuoco. Senza doverlo dichiarare ufficialmente…».

È sera, siamo ad Admiralty, il centro finanziario della città a lungo occupato in occasione della cosiddetta “Rivoluzione del ombrelli”, esattamente 5 anni fa. Lei, giovanissima leader, sempre a fianco di Joshua Wong, l’altro volto del movimento. Tenta di spiegare che cos’è cambiato da allora. «C’è più violenza, più rabbia, più disperazione – ammette Agnes –. È un momento molto difficile, per tutti. Stiamo andando ognuno per la sua strada, senza alcuna prospettiva concreta di dialogo. La violenza di certi giovani nasce anche da questo, dalla paura, dal terrore di un futuro che si annuncia sempre più vicino, orribile e inevitabile».

Non è che vi manca un leader? Qualcuno in grado di riunire e guidare le varie anime del movimento, e che abbia sufficiente autorevolezza per trattare sia a livello locale che direttamente con Pechino? «No. Ne abbiamo parlato, ne discutiamo continuamente. Ma per ora riteniamo questa situazione una formula vincente. È proprio l’assenza di una leadership, non importa come e quanto legittimata, che stimola la mobilitazione di tutta la città. Ciascuno è libero di proporre, ciascuno è libero di partecipare alle varie iniziative che nascono in rete. E nessuno rischia di essere ritenuto responsabile. A noi sta bene così, rende più difficile per le autorità intervenire. Sono sempre un passo indietro, rispetto al movimento».

Un passo avanti – non necessariamente nell’interesse della città – sembra invece che lo stiano facendo i signori del lusso. A differenza del settore immobiliare, che continua in qualche modo a tenere e a non temere l’integrazione con il continente, le grandi aziende del lusso stanno facendo, o si preparano a fare, le valigie.

Se Hong Kong perde i suoi privilegi, ma mantiene i suoi folli prezzi d’affitto, tanto vale andare direttamente in Cina. Qualcuno, come Louis Vitton e Prada, ha già annunciato il “downsizing”, la chiusura di alcuni punti vendita. Altri per ora ne parlano solo sottovoce. Ma l’esodo è cominciato. E per Hong Kong, per la sua economia e la sua immagine, questa non è una buona notizia.

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