venerdì 12 febbraio 2021
Oms e Unicef fanno il punto sulla campagna di immunizzazione: 2,5 miliardi di persone senza dosi. Altolà sulla corsa all’acquisto delle fiale: "Ma si può procedere con quelle fuori contratto Ue"
La somministrazione del vaccino a Soweto, in Sudafrica

La somministrazione del vaccino a Soweto, in Sudafrica - Reuters

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Nella grande corsa ai vaccini antiCovid, accelerata dall’incubo delle varianti (che secondo Angela Merkel potrebbero avere «un impatto catastrofico» per l’Europa e per il mondo), c’è un drammatico punto fermo confermato dai dati: quegli stessi vaccini non sono, e di questo passo non saranno per tutti.

Un numero è eloquente, lo hanno snocciolato ieri Oms e Unicef: delle 128 milioni di dosi somministrate finora, oltre i tre quarti delle vaccinazioni sono avvenute in soli 10 Paesi, che guarda caso sono quelli che rappresentano anche il 60% del Pil mondiale. I ricchi, insomma.

Sull’altra sponda, deserta, ben 130 Paesi: qui, fra i poveri, di vaccino non si è vista ancora nemmeno una fiala. Una strategia «autolesionista – afferma l’Organizzazione mondiale di sanità – che costerà vite e mezzi di sostentamento e che soprattutto darà al virus ulteriore opportunità di mutare, eludere i vaccini e minacciare la ripresa economica globale». Non a caso due delle tre varianti che stanno facendo tremare il mondo vengono da Brasile e Sudafrica. Ecco perché si chiede di nuovo ai leader (è un appello ripetuto più volte anche da papa Francesco) di guardare oltre i propri confini e attuare una strategia di vaccinazione «che possa porre veramente fine alla pandemia». Ci si salva insieme, oppure non si salva nessuno.

La strada da intraprendere, secondo le organizzazioni, è quella di garantire l’immunità immediatamente agli operatori sanitari che operano in prima linea nella pandemia nei contesti a basso e medio redditi. I Paesi che partecipano al programma di Covax si stanno preparando a ricevere e utilizzare i vaccini: proprio ieri l’Unione Europea ha lanciato un nuovo programma regionale del valore di oltre 40 milioni di euro per fornire assistenza nella vaccinazione ad Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Repubblica di Moldova e Ucraina. Manca, però, una fornitura equa e per assicurare che cominci la distribuzione: serve che vi aderiscano con convinzione sia i governi sia Big Pharma. E qui il gatto si morde la coda, visto che ognuno – con evidenza – continua a pensare per sé.

Il caso italiano è da manuale: negli ultimi giorni diversi Regioni, in primis Veneto, Piemonte ed Emilia Romagna, hanno annunciato di essere pronte a trattative dirette con le case farmaceutiche per procacciarsi più dosi rispetto a quelle che stanno arrivando attraverso gli accordi presi dall’Ue (pare che sul mercato siano acquistabili a cifre di 4 o 5 volte maggiori).

E da Bruxelles ieri è arrivato sì un avvertimento – negoziati paralleli con le aziende con con cui la Commissione europea ha contratti di pre-acquisto «non sono consentiti» –, ma di fatto anche un’apertura: per vaccini prodotti da altre aziende, Regioni o Stati membri «possono concludere contratti». Il pensiero, manco a dirlo, vola subito al russo Sputnik V: promettente anche dal punto di vista dell’efficacia (certificata a oltre il 90% sulle pagine della rivista Lancet), per il farmaco non è ancora partita né la richiesta di autorizzazione formale all’Ema né una trattativa ufficiale con Bruxelles.

Ed è facile pensare, dopo la mossa dell’Ungheria (che ha dato il via libera al farmaco e ne ha acquistate autonomamente già 40mila dosi), che anche altri Paesi possano presto accodarsi, agenzie del farmaco nazionali permettendo.

Nel frattempo, mentre in Italia è partita ufficialmente la campagna di immunizzazione con AstraZeneca (non senza altre polemiche, visto che dopo le perplessità delle Regioni anche molti medici e insegnanti stanno lamentando la scelta di immunizzarli col vaccino «meno efficace»), sul fronte internazionale si torna a discutere di passaporto vaccinale. Con la solita Ungheria che strappa e decide di “ballare” da sola: disco verde, da parte di Orban, per un documento che certifichi l’avvenuta vaccinazione e lo sviluppo di anticorpi. Uno strumento che secondo molti esperti potrebbe essere utile – specie quando comincerà la campagna di massa – a spronare gli indecisi alla vaccinazione, e che tuttavia ha senso di esistere, nuovamente, soltanto all’interno di una strategia condivisa. Che per ora sembra una chimera non solo a discapito dei Paesi più poveri, ma anche di quelli vicini e “amici”.

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