Sono due gli iter previsti dalla Costituzione per destituire il presidente degli Stati Uniti. L’«impeachment» (o «messa in stato di accusa») consente di rimuovere i membri del potere esecutivo, dal presidente al vice-presidente sino ai funzionari delle Amministrazioni statali e ai giudici federali. È promosso dalla Camera dei rappresentanti che indica a maggioranza semplice i capi d’accusa. La sentenza spetta al Senato con voto a maggioranza dei due terzi.
Gli estremi per l’impeachment sono l’alto tradimento, la corruzione o altri crimini come l’ostruzione della giustizia. La loro definizione è però aperta all’interpretazione dei parlamentari. Negli Usa l’impeachment è stato usato prevalentemente per rimuovere membri del potere giudiziario.
I casi di Clinton, Nixon e Johnson
Solo due presidenti vi sono stati sottoposti ed entrambi sono stati assolti: il repubblicano Andrew Johnson nel 1868 si salvò per un solo voto dall’accusa di abuso di poteri (aveva nominato il segretario alla Guerra senza consultare il Senato), e il democratico Bill Clinton nel 1998 fu prosciolto dall’incriminazione di aver mentito sulla sua relazione con Monica Lewinsky e di aver ostacolato la giustizia affinché non emergesse la verità sulla tresca. Richard Nixon invece si dimise nel 1974, evitando un sicuro impeachment per ostruzione alla giustizia nel caso Watergate.
Vi è poi il 25esimo emendamento della Costituzione che consente di rimuovere il presidente se il suo vice-presidente e la maggioranza del suo governo sostengono per iscritto che il presidente non è in grado di esercitare i poteri e i doveri del suo ufficio. In tal caso gli subentra il vicepresidente. Se il presidente si oppone, a decidere è la Camera, con i due terzi dei voti.