La traduzione in cinese sui cartelli della miniera di Tundayme
Gru monumentali aggrediscono la montagna. Un fianco è coperto da una pesante colata di cemento che cerca, a fatica, di tenere a bada il caos prorompente della selva. Il cantiere della miniera è in piena attività: l’avvio dell’estrazione è previsto alla fine dell’anno. Un cartello tranquillizza: «La nuova era del rame è alle porte». La scritta è tradotta in cinese, la lingua più diffusa ormai a Tundayme. Non c’è insegna che non sia illustrata in ideogrammi e adornata con lanterne rosso-Pechino. Eppure questa cittadina di meno di mille abitanti è incastonata nel cuore della Cordigliera del Cóndor, nell’Amazzonia ecuadoriana. Almeno sulla carta. Tutto qui – economia, società, politica, tempo libero – ruota intorno alla «nuova era del rame» e alla sua artefice: Ecua Corriente S.A., meglio nota con l’acronimo, Ecsa, filiale del consorzio statale di Pechino, Tonling-Crcc.
Rosario non aveva preso la frase in senso letterale. Fino a quando, il 30 settembre 2015, s’è trovata alla porta guardie private dell’impresa e poliziotti, armati di tutto punto. «Bussavano come pazzi. Mi hanno dato cinque minuti per andare via. Come si fa a lasciare una casa in cinque minuti?». A 73 anni, Rosario si è ritrovata a dover ricominciare da capo. «Sa che finalmente ero riuscita a comprare lo spremiagrumi? Piano piano, mio marito ed io c’eravamo presi tutte le comodità: luce, telefono, televisore. Per ultimo avevamo acquistato lo spremiagrumi. Non ho fatto in tempo a portare via niente…», racconta l’anziana, costretta ora a vivere in una baracca, fra sacchi di sabbia, gatti e una miriade di farfalle azzurre posate sui pochi muri edificati. Rosario – pelle bruciata dal sole, mani grandi e callose e sguardo combattivo – è uno dei 116 “sfollati della miniera”, oltre il dieci per cento della popolazione. Abitanti del quartiere San Marcos di Tundayme che – in base al principio di servitù mineraria – hanno dovuto cedere le loro proprietà a Ecsa per realizzare Mirador, la prima mega-miniera a cielo aperto nella storia del Paese latinoamericano.
«Abbiamo resistito all’estrazione per venticinque anni, a differenza del resto della regione. Poi, con Rafael Correa, sono arrivate anche qui», spiega Gloria Chicaiza, presidente di Acción ecológica e una delle ambientaliste più note del Paese. Gli intenti di colonizzazione della Cordigliera, in realtà, sono iniziati negli anni Novanta, con le esplorazioni della sudafricana Gencord Ltd, del colosso australiano-britannico Bhp Billiton e della canadese Corriente Resources. È stato, però, Correa a concedere lo storico via libera al consorzio cinese, in cambio dell’impegno a sborsare 100 milioni di royalties. Un apparente controsenso. L’ex presidente di centro-sinistra ha promosso l’innovativa Costituzione del 2008, la prima a tutelare esplicitamente i «diritti della natura». Il suo governo, però – come i precedenti – ha basato il proprio progetto di sviluppo – in questo caso redistributivo – sull’export di materie prime. Incluse le risorse del sottosuolo, dato il boom dei prezzi internazionali. Da qui la rapida espansione della frontiera mineraria proseguita anche dal successivo esecutivo, guidato dall’ex amico e ora rivale, Lenín Moreno. «Attualmente, il 6 per cento del territorio nazionale è stato appaltato o sta per esserlo – sottolinea Chicaiza –. Ventisei permessi per mega impianti di estrazione sono in mano ad aziende cinesi, canadesi e australiane». Cinque di questi sono stati definiti strategici. Tre si trovano in Amazzonia, come Mirador. Un’Amazzonia particolare, certo. Una “foresta verticale”. Gli alberi si arrampicano sui fianchi delle montagne, trasformandole in piramidi verde-intenso, perennemente avvolti dalle nubi. L’umidità esplode in una miriade di rigagnoli che, poi, si uniscono a creare una molteplicità di fiumi. Affluenti, a loro volta, del Rio Marañón e, dunque, del Rio delle Amazzoni. Il Tundayme, il Wawayme e il Quimi – che bagnano la cittadina di Tundayme – sono fra questi. Il loro equilibrio, dunque, influisce sul bacino amazzonico. Ora questo, come ipotizzato dallo stesso piano ambientale di Mirador, sembra alterato. Nei loro letti, l’acqua cristallina è stata sostituita da una poltiglia marrone. «È il fango della miniera. La terra tolta per costruire le infrastrutture è finita nei fiumi. Non possiamo più utilizzarli, nemmeno gli animali si bagnano più», dice María Aucai, levatrice e attivista. La situazione potrebbe peggiorare con l’inizio dell’estrazione. Quando, cioè, la miniera utilizzerà 1.950 litri d’acqua al secondo – ovviamente prelevata dai fiumi di Tundayme – per processare 60mila tonnellate di roccia al giorno.
I residui si accumuleranno nel maxi bacino di raccolta costruito dove un tempo sorgeva San Marcos. L’enorme catafalco ha ingoiato la scuola, i campi di Jacarande e la chiesetta. «I quattro ettari di terra erano stati donati alla comunità da Polibio Arévalo Pacheco – racconta Marialgel Marco, religiosa orsolina che ha accompagnato a lungo la comunità e collaboratrice della Rete ecclesiale panamazzonica (Repam) –. Purtroppo quest’ultimo non aveva formalizzato la cessione. All’epoca era sufficiente la parola». A sua volta, quando ha ceduto le sue proprietà a Ecsa, Arévalo Pacheco non s’è preoccupato di mettere per iscritto la garanzia che fosse tutelata San Marcos. Così sono arrivate le ingiunzioni di sgombero, a partire dal 2013 e, poi, le scavatrici. «All’inizio, a Tundayme, molti erano favorevoli alla miniera. Pensavano che avrebbe portato il “progresso”. Pian piano, però, le promesse sono state smentite dai fatti. La svolta è stata la demolizione della cappella. Per gli abitanti, la chiesetta sventrata a colpi di ruspa ha rappresentato uno choc», aggiunge la suora. Invece di paralizzarli, però, il dolore per la perdita dei simboli della loro memoria comune è diventato il motore della lotta pacifica. Con la nascita della Comunidad amazónica de acción social Cordillera del Cóndor Mirador (Cascomi), associazione locale che guida la resistenza alla miniera.
«Quali miglioramenti ha portato la compagnia agli abitanti? Nessuno. Anzi ha peggiorato la situazione», afferma il vicario apostolico di Zamora, monsignor Walter Heras. «Ecsa aveva promesso di creare 6mila impieghi, di cui 3mila diretti e il resto indiretti – gli fa eco Salvador Quispe, prefetto della provincia dove si trova Tundayme –. Non siamo arrivati nemmeno a un terzo. Oltretutto di questi un migliaio scarso sono stati affidati a persone della provincia. Le condizioni di lavoro, poi, secondo quanto ci hanno raccontato vari dipendenti, sono alquanto precarie».
Chi scrive si è recata di persona nel campo base di Ecsa per raccogliere la versione della compagnia. Né là né con le successive email e telefonate ha, però, ottenuto risposta. Ignare, le gru continuano ad aggredire il fianco della montagna. «La nuova era del rame è alle porte». (1. Continua)