Milano: ragazzi in oratorio nell'estate del 2020, in tempo di pandemia - Fotogramma
Due oratori su tre, a Milano, sono riusciti a dare continuità alle proprie attività fondamentali anche nella fase acuta della pandemia Covid-19. Uno su sei è riuscito persino a proseguire alcune attività nella loro forma tradizionale non appena i divieti si sono allentati. Come? Sperimentando linguaggi nuovi, forme diverse di incontro a piccoli gruppi o attraverso le nuove tecnologie, l’uso di piattaforme Internet e dei social media. Poco più della metà degli oratori ha dato vita a nuove attività per i ragazzi fra gli 11 e i 19 anni, specificamente pensate per il periodo pandemico, e che hanno: rafforzato i momenti di preghiera; spinto a utilizzare nuovi linguaggi; promosso l’apertura al territorio con iniziative da realizzare all’esterno. Fra queste proposte outdoor, spicca anzitutto l’introduzione di attività caritative – così è accaduto in più di un terzo degli oratori – che hanno mobilitato i ragazzi in piccoli gruppi, o addirittura singolarmente. Con iniziative che li hanno messi in gioco sul territorio – com’è accaduto nelle attività di aiuto agli anziani del quartiere – e in rete – si pensi ai laboratori online per i bambini costretti a casa.
Così emerge dalla ricerca “Il posto degli oratori. Una mappa delle proposte educative e ricreative per adolescenti a Milano” , promossa dalla Fondazione oratori milanesi e dalla Fondazione Ambrosianeum, coordinata dalle sociologhe dell’Università Cattolica Rosangela Lodigiani e Veronica Riniolo, e che ha coinvolto docenti e ricercatori anche del Politecnico e dell’Università di Milano-Bicocca. Che gli oratori non si fossero mai fermati del tutto nemmeno nelle fasi più acute dell’emergenza Covid restando punto di riferimento per tanti ragazzi e per le loro famiglie, era esperienza e opinione di molti. Tutto questo ora è autorevolmente attestato da una ricerca che non si limita a “dare i numeri” ma offre elementi di riflessione per guardare (e andare) avanti. Oltre la tentazione del tornare semplicemente a fare tutto come prima.
La ricerca ha messo a fuoco la proposta educativa e ricreativa dei 146 oratori attivi nelle 168 parrocchie di Milano città. E ha confermato come gli oratori, con la loro presenza capillare e la loro capacità di essere aperti e inclusivi, siano un irrinunciabile luogo di formazione cristiana e, nel contempo, un presidio educativo decisivo, soprattutto nei quartieri più svantaggiati sul piano socio-economico. Un ruolo che la pandemia e il post pandemia hanno messo alla prova e rilanciato, così come hanno rilanciato la sfida delle povertà e delle disuguaglianze educative anche in una città ricca di attività e di risorse educative e aggregative come Milano.
Ebbene: in questo scenario «la pandemia ha rappresentato un “trauma” anche per gli oratori», scrivono Lodigiani e Riniolo. Eppure, «quanto gli oratori siano una risorsa per la città, lo si è visto o, meglio, lo si è sperimentato in modo nitido nel corso delle fasi più acute e critiche della pandemia, quando i lockdown e le prescrizioni di distanziamento sociale hanno messo a dura prova anche la loro azione, ma non ne hanno mai fermato la capacità di tessere relazioni educative, di porsi in ascolto, di offrire, per quanto possibile, risposte di accompagnamento per bambini, adolescenti e giovani, in specie per i più fragili fra loro e le loro famiglie», proseguono le due sociologhe.
Ecco: quali sono i principali bisogni dei ragazzi tra gli 11 e i 19 anni che la pandemia ha fatto emergere con più forza, secondo l’esperienza dei responsabili e degli educatori degli oratori? Essere ascoltati in un contesto caratterizzato da molte incertezze (74,1%); incontrare figure adulte di riferimento capaci di porsi come guida (69%); la necessità di relazioni significative e affettive tra pari (65,5%); il confronto e la socialità con i propri coetanei (63,8%); il supporto emotivo-psicologico (46,6%); avere momenti di sintesi e confronto sul significato e sul senso della vita (43,1%); il contatto fisico (34,5%); la preghiera e la formazione cristiana (25,9%); momenti di confronto sul senso della cura, della malattia e della morte (22,4%); il supporto economico (13,8%). Così emerge dalla ricerca che, fra i vari strumenti, ha utilizzato questionari ai quali hanno risposto 58 oratori.
A questi bisogni gli oratori hanno risposto continuando a essere servizio di prossimità. E reagendo con realismo e creatività alle limitazioni imposte dalla pandemia, che ha costituito un’opportunità per vagliare cosa è essenziale e cosa no. Tanto che per il 41% del campione l’esperienza della pandemia ha contribuito a migliorare e innovare l’offerta pastorale, educativa e ricreativa, a fronte di un 16% che ha espresso una valutazione negativa. La ricerca non manca, quindi, di mettere in risalto ambivalenze e “rovesci della medaglia”. Con alcune esperienze innovative, ad esempio, si è corso il rischio di intercettare i ragazzi più vicini, proattivi, partecipativi, e di perdere per strada chi di solito sta “ai bordi del campo” o viene in oratorio saltuariamente.
Come fare tesoro di quella stagione drammatica? Evitando il ripiegamento, rassicurante e illusorio, del tornare a fare come prima. Anzitutto perché le proposte non hanno da subito contato i numeri di prima. E perché durante la pandemia tanti adolescenti sembrano aver “imparato la solitudine”, una dimensione emotiva che l’oratorio fatica a intercettare. Lo spettro dell’oratorio “vuoto”, ricorda la sociologa Maddalena Colombo, «precede il lockdown e non offre alcun alibi: è dovuto a una crescente distanza psicologica fra gli adolescenti e la Chiesa, o addirittura tra adolescenti e religione». L’utilitarismo, la disintermediazione e la privatizzazione sono i “valori” che oggi possono portare i ragazzi all’allontanamento definitivo dalla proposta educativa ecclesiale. Una deriva alla quale l’oratorio, cuore pulsante e intelligente della «comunità educante», può rispondere «con la gratuità, la mediazione e il dialogo intergenerazionale, la casa comune». Come luogo dove «far incontrare la vita di tutti i giorni con il Vangelo».
Oratori aperti, multietnici. E mai distanti più di dieci minuti a piedi
Milano «città dell’oratorio a dieci minuti». È il ritratto restituito dalla ricerca “Il posto degli oratori” promossa da Fom e Ambrosianeum. Che documenta come la distribuzione dei 146 oratori sia tanto capillare da renderli accessibili con dieci minuti di cammino (o meno) da quasi tutti i punti della città. E come il “popolo degli oratori” sia sempre più multiculturale e multietnico. Quali sono le domande e i bisogni principali esplicitati dagli adolescenti tra gli 11 e i 19 anni che frequentano gli oratori, secondo i responsabili? A prevalere è la domanda di spazi di socialità, incontro, gioco, sport, socializzazione. La seconda istanza prevalente: l’esigenza di partecipazione e protagonismo da parte dei ragazzi. Poi: la richiesta di opportunità e spazi per praticare attività sportive, quindi quella di trovare in oratorio una guida e un orientamento formativo. Segue la domanda di formazione cristiana. E, a molta distanza, il sostegno alla vulnerabilità socio-economica e l’aiuto-compiti. Gli oratori, conferma la ricerca, sono davvero luoghi «pieni di vita» (come dice lo slogan dell’anno oratoriano 2023-2024). Come ricomporre le tensioni fra apertura e accoglienza della diversità, l’essere realtà “a bassa soglia”, e la proposta di un’appartenenza che impegna e offre identità? Con la formula dell’“oratorio delle 4 C”, propone la sociologa Rosangela Lodigiani: «comunità, convivialità, condivisione, co-protagonismo».