Qual è la salute mentale delle nuove generazioni rispetto alle fasce più mature della popolazione? Una maggior esposizione sui social media, abbinata al loro uso intenso, può avere un serio impatto sulla salute mentale: circa un under 25enne su 4 si dichiara molto stressato dall’uso dei social. Lo attesta un’indagine presentata nei giorni scorsi, promossa da BVA Doxa (prima società di ricerche di mercato in Italia) e Serenis, piattaforma digitale per il benessere mentale e centro medico autorizzato. Inoltre l’incertezza del futuro, l’instabilità economica e il percorso di studi sono tra le maggiori fonti di stress tra i giovani con meno di 25 anni.
Ma cosa potrebbero fare i genitori per “tamponare” questa situazione? «Più che tamponare la situazione, che sa molto di riempire un buco in emergenza, direi che la questione diventa: che tipo di esperienza vorrei offrire, che sia educativa o ludica, a mio figlio o a mia figlia? In accordo con la precisazione iniziale, spesso ormai noi genitori vediamo le vite dei nostri figli come contenitori da riempire il più possibile per stimolarli continuamente», evidenzia la psicoterapeuta Martina Migliore, direttrice Formazione e sviluppo di Serenis. E aggiunge: «In realtà è possibile educarli a prendersi tempo per fermarsi: anche se inizialmente possono esserci lamentele al non far niente, manifestando fiducia in loro è possibile accompagnarli alla scoperta degli spazi vuoti, indipendentemente dalla soluzione scelta per loro durante l’estate, e ovviamente dettata dalle necessità e possibilità familiari».
La ricerca, che ha coinvolto su tutto il territorio nazionale oltre 878 intervistati tra i 18 e i 54 anni, cerca di individuare le cause e le situazioni che suscitano nei giovanissimi un sentimento di forte angoscia. E svela che però non è facile chiedere aiuto agli esperti, «nonostante ci sia un’attenzione positiva e stabile verso la psicoterapia»: il 57% afferma di non parlare mai o quasi mai di benessere mentale, neppure con familiari e amici. Gli uomini sono i più restii (solo il 15% si confida con gli amici), insieme alla fascia dai 45 ai 54 anni, mentre appena il 21% degli intervistati si apre con i propri familiari su questi temi. Nelle coppie, la donna nel 35% dei casi è più aperta e incline a parlare di benessere mentale, mentre gli uomini lo fanno solo nel 26% dei casi. Tuttavia, fra le mura domestiche le donne, nonostante si aprano nel 49% dei casi con una persona con cui sono in confidenza, solo in minima parte lo fanno con i propri familiari (28%), con cui teoricamente ci si dovrebbe sentire in grado di condividere ogni emozione, per quanto complessa.
«Può sembrare strano che si tenda ad aprirsi più verso l’esterno, addirittura solo attraverso i commenti sui social, piuttosto che con i propri familiari», commenta la dottoressa Migliore. «Credo ci sia un bias (forma di distorsione della valutazione causata dal pregiudizio, ndr) di base importante: diamo troppo spesso per scontato che la famiglia sia il “luogo sicuro”, sia affettivamente sia relazionalmente, ma in moltissimi casi non è così. In famiglia si possono perpetuare nel tempo antichi conflitti mai risolti, percezioni di esclusione che alimentano la sensazione di poter essere fortemente giudicati o, peggio, esclusi nel caso in cui non si rispetti uno standard ipotizzato. La poca comunicazione in questo caso alimenta il circolo vizioso perché, in assenza di chiarimento, gli standard vengono creati autonomamente e non c’è mai la possibilità di correggerli».
Non solo: nella nostra società parlare in famiglia di benessere mentale è ancora un tabù, soprattutto per gli uomini. «Nonostante ci siano stati nel tempo grandi cambiamenti che hanno portato all’evoluzione di una maggiore intelligenza emotiva, a volte l’uomo è ancora legato a una tematica di virilità tossica, la quale porta a nascondere la fragilità e le emozioni per paura di essere giudicato “meno uomo” agli occhi della società e soprattutto della propria famiglia. Molti vengono ancora cresciuti nel mito del problem solving a ogni costo e della pragmatica forzata, per cui le riflessioni sui propri stati emotivi e la sofferenza non sono percepite “utili”, ma solo fastidiose o segnali di inadeguatezza», osserva la psicoterapeuta.
Che nota come, secondo l’indagine, donne e giovanni della Generazione Z mostrano una maggiore apertura riguardo al benessere mentale e alla psicoterapia: «La GenZ è giustamente sempre più richiedentedi nuovi standard emotivi che rispettino l’individuo nella sua interezza, comprese le sue difficoltà, e le donne per cultura precedente sono sempre più disponibili a questo tipo di apertura. La vera sfida sarà quella di smettere di fare una distinzione tra sessi, in termini di fragilità, emozioni e sofferenza, iniziando a considerare davvero una sola categoria: quella dell’essere umano».