giovedì 6 giugno 2024
Claudia Roffino, figlia adottiva, contesta la ricerca delle origini biologiche. Non solo gesto di ingratitudine ma scelta che rischia di ridurre il parto in anonimato e far lievitare gli abbandoni
«Non cercherò mai mia madre naturale. Vi spiego perché»
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«Perché dovrei pretendere, dopo oltre cinquant’anni, di ritrovare la mia madre naturale? Sono una figlia adottiva felice di quello che la vita mi ha donato, grata ai genitori che mi hanno accolto e cresciuto, non ho bisogno di quel dato per ricomporre, come si dice, la mia identità e intendo rispettare la volontà di quella donna che, al momento del parto ha chiesto e ottenuto, come previsto dalla legge, il diritto a rimanere anonima».

Le parole di Claudia Roffino, torinese, docente di latino e greco al liceo classico, vanno in controtendenza rispetto alla campagna avviata da varie associazioni di figli adottivi impegnati nella ricerca delle proprie origini. L’articolo pubblicato su questo sito (leggi qui) – e prima sulla nostra pagina domenicale Noi in famiglia – con al centro la storia di Emanuela Bizzotto, la donna trentina che ha ritrovato dopo 43 anni la propria mamma naturale, hanno convinto Roffino ad esprimere la propria posizione di dissenso. Una convinzione già approfondita nel libro, Una vita in dono, (99 Edizioni. 314 pagg. 19,90 euro) scritto a quattro mani con Barbara Di Clemente.

Perché è convinta che sia meglio non cercare le proprie origini biologiche?

Perché, al di là della mia esperienza personale, ho intervistato e raccolto testimonianze in vari ospedali del Piemonte e Lombardia, da Torino, Novara a Milano. Ho parlato con assistenti sociali, ginecologi, infermieri e operatori dei reparti di neonatologia che per lavoro hanno incontrato più volte donne che non hanno riconosciuto il proprio figlio. E tutti mi hanno spiegato che la maggior parte delle madri che scelgono il parto in anonimato non intende essere riconosciuta.

Ma tutte le vicende raccontate in questi anni, con figli che ritrovano le proprie madri dopo decenni in un clima di reciproca soddisfazione, non stanno a dimostrare il contrario?

La verità dei fatti è molto diversa da questi racconti che hanno valore più giornalistico che reale. Innanzi tutto, quante sono le madri naturali che, rintracciate dai tribunali, hanno dato la loro disponibilità ad incontrare un figlio messo al mondo decenni prima? Pochissime. L’unico dato concreto è stato comunicato lo scorso anno nell’ambito di un convegno dal Tribunale per i minorenni di Piemonte e Val d’Aosta. Nove donne su dieci hanno detto no. Quindi non cercare le proprie origini è una scelta che rispetta il diritto delle madri che hanno scelto il parto in anonimato. E rispetta la legge che indica la durata di questo anonimato, cent’anni.

Si tratta però di una legge bocciata dall’Europa e dalle sentenze della Consulta e della Cassazione. Ora la proposta di legge sollecitata dal Comitato per il riconoscimento delle origini biologiche parla di un intervallo di 25 anni tra il parto e la richiesta di interpello da parte dei figli. Perché pensa che sia sbagliato?

Una certa cultura vuole promuovere l’idea che la genitorialità autentica sia quella del sangue, ma tutti sappiamo che non è così. Genitore è chi ama, accoglie, educa, fa crescere. Se mancano tutti questi aspetti, la parte biologica è davvero poca cosa. Mettiamo da parte il pathos della ricerca e pensiamo agli effetti che potrà avere una legge simile. Rischierebbe per esempio di azzerare il numero dei bambini partoriti in anonimato e di far esplodere quello degli abbandoni che, per altro, è già aumentato negli ultimi dieci anni, da quando cioè si è avviato in modo molto intenso il discorso sulla ricerca delle origini biologiche.

Contesta chi sostiene che conoscere le proprie origini biologiche sia un passaggio indispensabile per il completamento della propria identità?

Un figlio adottivo che ha incontrato il dono di due genitori, che è stato accompagnato all’età adulta, dovrebbe essere grato alla donna che ha scelto di metterlo al mondo pur in condizioni drammatiche. E non dovrebbe pretendere altro. Anzi, dovrebbe rispettare una scelta di anonimato che è stata comunque decisiva per la sua vita. Rompere questo equilibrio significa fare del male a chi ti ha messo al mondo. È questo il prezzo per ricomporre un’identità? Guardi che sono tantissimi i figli adottivi lasciati alla nascita a pensarla in questo modo. E nessuno di noi ha problemi di identità. Anzi, insistere su questo punto può diventare offensivo e ingiusto nei confronti dei genitori adottivi, cioè i nostri veri genitori.

Ma riscoprire un figlio dopo 30 o 40 anni, vedere che sta bene, che magari ha formato una propria famiglia, non può essere motivo di soddisfazione per una mamma?

Non sempre. Queste donne, nella maggior parte dei casi, hanno un’altra famiglia, altri figli. Pensiamoci bene. Queste donne hanno già fatto una scelta di grande coraggio e di grande responsabilità. Hanno compreso di non potersi occupare del bambino che stava per nascere e hanno lasciato che altri se ne prendessero cura. Hanno messo da parte l’egoismo e fatto prevalere il bene del bambino. Ecco, tutti i figli adottivi affidati alle istituzioni alla nascita dovrebbero considerare sufficiente quel dono e non pretendere altro. Un gesto di amore e di rispetto.


Eppure, si continua a ripetere che conoscere le proprie origini biologiche sia un diritto.

In queste situazioni ci sono in gioco tre diritti. Quella della donna a partorire in anonimato, che è un diritto riconosciuto in Italia dal 1928 ed è assicurato a tutte le donne, italiane e straniere, con e senza cittadinanza. Il secondo diritto è quello di nascere in sicurezza in un ospedale. E anche questo è riconosciuto a tutte le donne. Il terzo è quello del figlio adulto a riconoscere le proprie origini, secondo modalità che sono però in attesa di una legge. Perché mai questo diritto dovrebbe prevalere sui primi due?

Lei non ha mai avuto il desiderio di scoprire chi l’ha messa al mondo?

Certamente è una curiosità che, soprattutto nell’adolescenza, s’affaccia. Ma poi con la riflessione e con i consigli giusti, prevalgono altri ragionamenti. Accettare il dono della vita, rendersi conto che non sei stata abbandonata ma affidata a qualcuno che si sarebbe preso cura di te. Prendere coscienza del fatto che i tuoi genitori adottivi hanno fatto tutto il possibile e, a tutti gli effetti, sei stata una figlia amata, educata, accudita. Guardi, se dovessi incontrare la donna che mi ha messo al mondo – che, ribadisco, non voglio cercare – non riuscirei a chiamarla mamma. È stata madre. Non mamma…

Che differenza c’è, a suo parere?

Madre è colei che genera, mamma quella che ti fa crescere e che ti tiene nel cuore per tutta la vita. Guardi, nel mio libro c’è una poesia che sintetizza bene, secondo me, questi due concetti. Permetta che gliela legga.

Mamma: la parola che ripetiamo più spesso

Mamma: la persona più importante!

Madre: colei che mi genera

Mamma: colei che mi cresce

Madre: colei che dal primo momento mi fa crescere nella sua pancia

Mamma: colei che già da prima del mio arrivo, mi tiene nel suo cuore!

Madre: colei che mi dona la mia vita

Mamma: colei che mi dona la sua vita!

Non tutte le donne possono essere madri

Non tutte le donne sono in grado di essere mamme

Mamma c’è…

Mamma mi ama

Mamma mi educa

Mamma mi bacia

Mamma mi abbraccia

Mamma mi consola

Mamma mi sprona

Mamma mi insegna le regole…

Mamma mi dice di no…

Mamma mi dice di sì…

Mamma mi lascia libera…

Mamma mi lascia sbagliare…

Mamma…

Spesso madre e mamma coincidono, a volte no!

E se è la volta no…

Ci metterai molto a capire e perdonare la prima,

non smetterai un solo istante di amare la seconda!

Grazie a mia madre per avermi donato la vita!

Grazie a mia mamma per avermi donato l’amore per tutto il resto della mia vita!

Una poesia che fa riflettere, certamente. Ma non possiamo negare che l’attesa di tanti altri figli adottivi per una legge rimane altissima. Le proposte esistono e forse in questa legislatura si arriverà ad approvarla. Che caratteristiche dovrebbe questa legge per essere rispettosa sia dei diritti della madre naturale sia dei figli abbandonati alla nascita?

Per me, e per tanti altri figli adottivi che come me ritengono fondamentale il rispetto della decisione di una madre al momento del parto, l’unica legge accettabile dovrebbe escludere ogni possibilità di ricerca da parte del figlio e ogni possibilità di interpello da parte dei tribunali. Dovrebbe semmai essere la donna a decidere di andare in Tribunale a dichiarare la propria disponibilità all’incontro: “Se mi dovessero cercare, sono disponibile”. Ma non dev’essere cercata, non dev’essere interpellata se non c’è a monte questa dichiarazione di disponibilità.

Una posizione che sembra molto rigida…

Ma no. Scusi, non succede lo stesso con l’adozione? Quando un minore viene adottato in via definitiva con sentenza del tribunale, per la madre naturale non c’è alcuna possibilità di sapere dov’è e come si trova quel figlio di cui non ha potuto o voluto occuparsi. Non può cercarlo. Ma allora perché io, figlia, devo pretendere di violare la privacy di quella donna. Dev’essere una cosa reciproca. E poi, come detto, quella madre ha molto probabilmente un’altra famiglia, un marito, dei figli che certamente non sanno nulla di quell’altro figlio/a, avuto in precedenza e poi lasciato in ospedale. Per quella famiglia sarebbe un terremoto scoprirlo. Ma le faccio un altro esempio. Oggi, tra le donne che scelgono il parto in anonimato ci sono tante musulmane. Se tra 25 anni qualcuno avesse il “diritto” concesso dalla legge di rintracciarle, è facile immaginare quale sarebbe la sorte di queste donne.

Sono preoccupazioni legittime e probabilmente anche fondate. Ma cosa rispondere allora ai circa 400mila figli adottivi di cui, secondo alcune stime, almeno il 50-70 per cento, sarebbe interessato a rintracciare le proprie origini?

A parte il fatto che, secondo statistiche più credibili, i figli lasciati alla nascita negli ultimi 60 anni sarebbero più o meno un quarto della cifra indicata. E che quelli interessati a conoscere la madre naturale sarebbero decisamente una minoranza che per altro nessuno può indicare, perché non esistono ricerche in questo senso. A me preoccupano soprattutto i numeri relativi a quelle madri che scelgono di abbandonare i figli perché hanno timore del parto in anonimato con l’incubo di essere rintracciate dopo 25 anni. E i numeri di quei bambini abbandonati che non saranno compresi in nessuna statistica perché su di loro non c’è alcun conteggio ufficiale. Se ci fosse una statistica dovremmo scrivere “zero”. Ma sarebbe uno “zero” colmo di dolore e di angoscia. Colmo di volti disperati. Vogliamo continuare a riempire quello “zero”?

Non abbiamo certezza però che una nuova legge, equilibrata e ragionevole, possa davvero produrre i danni che lei evoca…

Se per le donne non ci saranno forti garanzie per quanto riguarda il rispetto della riservatezza al momento del parto i rischi sono troppo elevati. No, guardi, stiamo andando incontro a una serie di possibili violazioni con ripercussioni anche gravissime. Vogliamo frenare il ricorso al parto in anonimato e incrementare gli abbandoni nei cassonetti e sui marciapiedi? Fermiamoci finché siamo in tempo.

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