«Il gioco, in tutte le sue forme, è lo strumento migliore per sviluppare l’aspetto cognitivo: come “il bimbo gioca, l’adulto lavora”, è un’attività da prendere seriamente. Il videogame è un aiuto, un altro modo di giocare, ma servono ulteriori studi a lungo termine per quanto riguarda il trattamento di bambini che potrebbero diventare dislessici e quelli che lo sono già. Servono numeri più grandi, statisticamente significativi. Poi - spiega Luisa Comenale Pinto, neuropsichiatra infantile, pediatra e membro del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dislessia (Aid) - occorre una diagnosi dettagliata, una terapia personalizzata, cucita sul bambino».
Giovanna Gaeta con suo figlio Luigi ha fatto proprio questo, trovando il modo migliore per aiutarlo, ma lasciandogli il proprio spazio. «Io però sono logopedista - scherza Giovanna - partivo avvantaggiata». Lei è anche segretario nazionale di Aid e presidente della sezione di Napoli e ha capito subito che il figlio aveva difficoltà nel portare a termine alcuni compiti. «Me ne sono accorta alla scuola materna, aveva un ritardo nello sviluppo del linguaggio di sei mesi rispetto agli altri bambini e difficoltà nella “motricità fine”, per esempio non riusciva ad abbottonarsi il grembiule e quindi scriveva anche graficamente molto male». E poi le canzoncine, le poesie all’asilo, i nomi dei compagni, «tutte cose che gli costava molta fatica memorizzare». Luigi ha 24 anni, è dislessico, disgrafico e disortografico, ma questo non gli ha impedito di laurearsi in matematica applicata, «l’unica cosa che non gli riesce ancora è fare il nodo alla cravatta», ironizza la mamma.
«La dislessia ha una componente genetica e infatti abbiamo scoperto che anche mio marito è dislessico, ma una volta non c’era l’attenzione che c’è oggi - dice Gaeta - quindi lui nello studio non è mai stato seguito». Cosa che invece è successa al figlio. «Già in prima elementare la difficoltà di Luigi nel leggere e scrivere era evidente: confondeva le lettere, le riconosceva solo in stampatello» ma prima della seconda elementare «nessuno mette nero su bianco la diagnosi, magari ti dicono “sospetta dislessia”. Questo secondo il protocollo». Luigi è partito con la psicomotricità, poi logopedia e alla fine delle elementari è stato affiancato da un tutor per imparare il metodo di studio. La Legge 170 del 2010 che riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia quali disturbi specifici di apprendimento (Dsa) è arrivata quando Luigi era in prima media «e con gli insegnanti subito non è stato semplice – afferma la mamma - perché la legge era poco conosciuta», tanto che «in terza i professori mi dissero: “Signora, ma Luigi non sarà mai in grado di fare il liceo, perché non gli fa fare l’odontotecnico così si mette a lavorare col papà?”».
Lui invece si è iscritto al liceo scientifico e ha trovato docenti molto disponibili tanto che «ha iniziato a volare, ha ritrovato la fiducia in sé stesso» e ha deciso che si sarebbe iscritto alla facoltà di matematica. Luigi usava i videogiochi? «Sempre, ci ha giocato fin da piccolo: azione, guida sportiva e strumenti musicali. I giochi aumentavano la sua attenzione, ma anche la precisione e la rapidità nei movimenti - dichiara la mamma -. Me lo ha confermato lui stesso. Non c’è un solo approccio valido per trattare i Dsa, ma soprattutto i genitori non devono avere paura di riconoscere la difficoltà del figlio. Ci sono molti strumenti utili per aiutarlo e prima si iniziano a usare più benefici avrà il bambino».
Che ci sia una relazione positiva tra i videogames e la capacità di apprendimento del bambino è cosa nota, ma che siano utili per risolvere il disturbo del linguaggio in quelli a rischio di dislessia, è una novità. La ricerca che mette nero su bianco questo legame è stata pubblicata sulla rivista NPJ Science of Learning, che fa parte del prestigioso gruppo Nature ed è a firma tutta italiana. La dislessia rientra nei Disturbi specifici dell’apprendimento (Dsa) che interessano il neuro-sviluppo. Si riferisce alla difficoltà di leggere in modo fluente e corretto. Riconoscere le avvisaglie della dislessia prima dell’età scolare è quindi un grande aiuto per il bambino e per i genitori.
Quello che ha sorpreso i ricercatori è stata «l’efficacia cross-modale dell’esperimento» cioè il fatto che i suoni del videogame abbiano «favorito un miglioramento nella capacità di discriminazione dei suoni nel bambino». La concentrazione di chi gioca infatti è rivolta allo schermo e non alla melodia o ai rumori che provengono dal gioco, eppure «dopo il trattamento, e a distanza di sei mesi, i bambini con difficoltà nel linguaggio riconoscevano i suoni tanto quanto i bimbi senza difficoltà». E una volta finito il trattamento? «È una bella sfida rispondere - dice ancora Bertoni -, ci aspettiamo che impareranno a leggere con minore difficoltà. I più piccoli hanno un cervello molto plastico e questo ci permette di lavorare in modo incisivo sulle capacità chiamate “di dominio generale” che si usano quotidianamente in moltissimi compiti, oltre che nella lettura». I bambini ai quali si riferisce la ricerca sono in età prescolare, ma questo genere di attività produce risultati visibili anche su chi è già stato diagnosticato come dislessico: «Una mamma ci ha detto che la figlia ora legge tutti i cartelli stradali, come fosse un gioco».
Il passo successivo sarà capire se «i videogames, sotto il controllo di un esperto, possano potenziare le abilità di lettura anche dei bambini che non rischiano di sviluppare un disturbo dell’apprendimento e come integrare questo tipo di trattamento con quelli tradizionali». «Da anni vengono pubblicati studi sull’impatto che i videogiochi d’azione hanno sulla corteccia cerebrale – fa sapere Luisa Comenale Pinto – ed è ormai assodato che potenzino le facoltà cognitive e l'attenzione visiva e uditiva». Il vero rischio del loro utilizzo sta nel possibile sviluppo di una dipendenza: «Non ci sono ancora criteri diagnostici per stabilire quale sia l’uso patologico dei videogiochi. Il pericolo maggiore è il ritiro sociale e l’obesità dovuta al mancato movimento del bambino». In un contesto controllato da genitori consapevoli questi rischi però non si corrono e non è vero che «se i bambini usano videogiochi violenti diventano più aggressivi. Semplicemente imitano le mosse che vedono, ma questo discorso vale per qualsiasi cosa: comportamenti, linguaggio, azioni ecc. Una volta si faceva questa associazione: videogioco-aggressività. Ora le ricerche la smentiscono».