Niccolò Palombini
Come un tennista, solo in campo. L’avversario si guarda in faccia e si batte anche di testa. Ma anche come un bomber, che si guarda intorno e cerca la squadra. Calcio e tennis, Nicco li gioca entrambi. E quando si ritrova nel bel mezzo della partita più difficile, quella che nessuno vorrebbe mai dover affrontare, gioca come un fuoriclasse, su un campo fatto non di erba e terra, ma di ospedali e cure oncologiche. Quando nella sua vita entra un osteosarcoma, Niccolò Palombini è un sedicenne «fortunato »: scuola, amici, fidanzata, lo sport, e soprattutto la sua famiglia. Un giorno di primavera, sul campo da calcio, la sua grande passione, Nicco sente un dolore alla gamba, insidioso: è la prima manifestazione della malattia. Seguiranno biopsie, operazioni, lunghi ricoveri, la chemioterapia e i suoi effetti collaterali. Tutto così lontano dalla vita spensierata di un ragazzo della sua età.
«Ho giurato a me stesso che niente e nessuno mi avrebbe mai tolto la voglia di scherzare, anche nei momenti peggiori. Non era facile, ma volevo provarci. Bisognava reagire, altrimenti non si guariva. E comunque essere forti è semplice quando è l’unica scelta che hai». Oggi Niccolò scrive così nel libro che è un diario della sua malattia, e i cui proventi saranno devoluti alla onlus Busajo, per i bambini di strada in Etiopia. 'Io non ho più paura' (Newton Compton), nasce un po’ in ospedale, durante la terapia, un po’ alla fine dell’odissea, il viaggio dentro se stesso di un ragazzo che diventa grande di colpo.
Accanto a lui c’è sempre la sua famiglia. La sua 'squadra' nella partita della vita, insieme ai medici e al personale sanitario che lo ha curato. Mamma, papà, e i suoi due gemelli. Tutti per uno, uno per tutti i fratelli da sempre: insieme a scuola, con gli amici, nello sport. Con i genitori, i fratelli sono «la mia vera forza», dice. E poi la fede. «Mi ha aiutato ». Una presenza con cui interloquire. Un dialogo diretto, con la preghiera. «La malattia nella vita di un uomo, e di un ragazzo ancor di più, è uno spartiacque che scava un solco tra il prima e il dopo. Spezza una storia in due... Il dopo ha occhi quasi sempre diversi con cui vedere cose che prima erano invisibili»: anche oggi, da un anno e mezzo in follow up, ancora in riabilitazione, Niccolò le vede bene, le cose che contano. Il potere del sorriso, di un atteggiamento positivo, della resilienza. Perciò vuole scrivere. Sa scrivere, e decide che sarà questa non solo un gesto terapeutico, ma di condivisione, in un’epoca dove si condivide e si rielabora tutto fin troppo in fretta, a suon di hashtag. Pensa a chi oggi è nel centro della battaglia, o della partita con un avversario che non si dà per vinto. Un nemico che vuole strappare la vittoria sfoderando colpi subdoli, e impari. Contropiedi fulminei. Nel suo libro-lettera Niccolò incita a non darsi mai per vinti. Non nasconde nulla di ciò che gli è capitato. Il dolore, lo sconforto, la paura, la rabbia.
«La chemio - racconta - è una macchina della verità che mette a nudo la tua anima e che abbassa le difese non solo immunitarie, ma anche quelle che montiamo tutti i giorni per sentirci vincenti, accettati, uniformati». Nella malattia, ci si sente soli. «Una lotta individuale, ci devi stare - dice Niccolò -. Con il fisico, ma anche con la testa. Anche quando il corpo non risponde più...». Parla poco. Quello che conta, soprattutto per chi è oggi nelle sue stesse condizioni di un anno fa, l’ha affidato al libro.
«Vorrei non essere stato senza capelli, con le stampelle e le pompe per infusione, tutto pelle e ossa. Le chemio mi distruggevano fisicamente e psicologicamente. Ognuna ti stanca peggio di cinque partite di calcio giocate di seguito, perché inizi a vomitare il cibo, poi il muco, poi la bile e quando questa è terminata vomiti liquidi di strani colori, e dentro ti senti morire». Il dolore ritorna di continuo nel libro, declinato in tutte le forme. Il dolore fisico, quello per l’allontanamento da casa, quello per la sofferenza e la fatica dei suoi, per i pensieri negativi. E quello di un adolescente davanti allo specchio che «urla che fai schifo e non sei abbastanza in forma». Ha sofferto in silenzio, e Nicco lo grida oggi, nel libro.
«Ho odiato quel periodo, mi odiavo, ce l’avevo col mondo intero, ero sempre arrabbiato e triste. Ho dato la colpa a me stesso per ogni singola persona che è andata via e mi creavo casini inesistenti. Mi sono ammalato, ho pianto, ho sofferto, ho sbagliato, ho capito, ho affrontato tutto, sono guarito». La parabola è qui. «Non tutto è destinato a finire bene» ma «tutto merita un tentativo». Chi gli vuole bene lo chiama guerriero, e lui si riconosce nell’appellativo. «L’orario della chemio cercavo sempre di anticiparlo perché un lottatore il nemico lo va a stanare e lo aggredisce, non lo aspetta». Guardando le sue foto in tenuta sportiva, il suo sorriso, sembra di vederlo, lo sguardo volitivo sotto il cappellino da baseball che gli ha coperto la testa per mesi. «È sempre stato un bambino coraggioso. È stato lui, per tutto il tempo necessario, la forza dei suoi fratelli. E anche mia», dice la mamma. In quel sorriso, Nic ha trovato la chiave. «Dio benedica quelle persone che quando incroci il loro sguardo per sbaglio o per scelta sorridono». Lui, ha sorriso «per legittima difesa». Si è goduto un’uscita furtiva dalla clinica per mangiare sushi con papà, si è fatto sorprendere dagli amici per una pizza e una birra sul letto d’ospedale, per guardare tutti insieme la partita della Roma: al fischio d’inizio, lui non poteva mancare.