Le scarpe rosse, simbolo della violenza sulle donne e dei femminicidi - Ansa
In occasione del 25 novembre, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, abbiamo deciso di chiedere a un campione di amiche, conoscenti, colleghe di raccontare la “propria” violenza. Per noi è stato un po’ choccante e un po’ no accorgerci che nessuna di loro è stata esente, nel corso della vita, da un episodio di molestia: piccolo o grande che fosse, esso l’ha segnata in vario modo, facendola sentire calpestata, annientata, violata. I racconti sono pubblicati qui di seguito: molte lettrici si rispecchieranno in essi, alcuni lettori (maschi) inorridiranno pensando che anche alle loro mogli, sorelle, madri e figlie è statisticamente molto probabile che sia accaduto qualcosa di simile. Altri ancora – speriamo pochi – penseranno che in fondo c’è di peggio dell’essere palpeggiata o inseguita fino alla porta di casa. Ma prima e dietro ogni “grande” violenza, dallo stupro al femminicidio, c'è proprio questa cultura della normalizzazione e della prevaricazione quotidiana. Se vuoi descrivere anche tu la tua storia di violenza, anche in forma anonima, puoi farlo mandando una mail a lettere@avvenire.it, specificando nell’oggetto “Non è normale”.
Laura, impiegata (24 anni)
Dopo un infortunio al torace, l’anno scorso, sono andata in ospedale per una radiografia. I due addetti mi hanno chiesto di togliermi maglia e reggiseno per l’esame. Uscendo dalla stanza, uno si è rivolto all’altro: «Questa qua ha proprio le tette che piacciono a te, hai visto? Stanno perfettamente in una mano!». E poi avanti con altri commenti sul mio corpo, ridendo. Io mi sono immobilizzata, avrei voluto rispondere ma quella sensazione di paralisi è stata più forte. Ero lì, nuda, affidata a loro. È stato umiliante, mi vergognavo. E non l’ho mai raccontato a nessuno, per la stessa ragione. Poi parlando con un’amica, un giorno, lei mi ha raccontato d’essersi trovata nella stessa situazione per una frattura alla clavicola: l’avevano ingessata non risparmiandosi a viso aperto risate sulle dimensioni del suo seno. Si era sentita esattamente come me.
Lucia, cantante (45 anni)
Ho avuto una frequentazione con un ragazzo di origini senegalesi. A un certo punto capisco di non amarlo e lo lascio. Lui non accetta la cosa: continua a suonare al mio campanello, mi chiede di salire, di vedermi. Io smetto di rispondere e di aprirgli. Lui non smette invece: suona anche ai vicini, urla per strada. Io mi vergogno da morire, nel palazzo la gente è allarmata, per qualche giorno decido di non uscire sperando che si calmino le acque. Ma lui continua. A quel punto vado alla polizia e denuncio. Mi dicono che verificheranno. Poi mi convocano in caserma, mi fanno parlare con un incaricato. Lui mi dice che, «povero ragazzo», è innamorato di me, che cerca solo di parlarmi. Aggiunge: «Che cosa ti aspettavi, a uscire con uno straniero?». Subivo la violenza più grande: che la violenza che stavo denunciando fosse sminuita, che la colpevole fossi io. Domani racconterò la mia storia in una scuola.
Ambra, studentessa (24 anni)
L’ho conosciuto sui social, avevo 19 anni e lui 25, c’era il Covid e mi ero appena trasferita in un’altra città per studiare. All’inizio sembrava il principe azzurro, poi i segnali: un tremendo attacco di rabbia durante il quale ha distrutto i mobili di casa sua. Mi sono spaventata ma lui mi ha rassicurata; in seguito ho scoperto che beveva e questi erano gli effetti. Lui attaccava i miei punti deboli: mi diceva che senza di lui non ero nulla. Aveva creato il vuoto intorno a me: non uscivo più con le amiche, mi faceva tenere a distanza la mia famiglia. Mi manipolava. Qualche schiaffo, tirate di capelli, insulti. E qualche volte mi ha indotto a fare con lui cose che non desideravo. Una volta ho chiamato le forze dell’ordine, ma loro hanno detto che erano ragazzate. Finché una sera sono scappata da casa sua e i miei mi hanno salvata.
Francesca, commessa (30 anni)
La prima volta che me l’ha detto era estate, stavamo camminando sul lungomare: «Devi guardare per terra». Mi ero vestita bene per uscire con lui, ho pensato che stesse scherzando, ho riso. Dopo qualche minuto ha ripetuto, con la voce più bassa e seria: «Non hai capito, devi guardare per terra quando vai in giro». Pensai che fosse così innamorato di me da non poter sopportare che incrociassi gli sguardi degli altri, ci passai sopra. Poi ha cominciato con il telefono: non voleva che lo usassi, mi rimproverava se rispondevo a un messaggio o se ricevevo una chiamata. La sera di Capodanno, poco dopo la mezzanotte, lo presi per scrivere gli auguri a mia madre. Eravamo seduti vicini, lui mi mise una mano dietro la nuca e mi spinse la faccia contro il tavolo: «Non devi usarlo, il telefono». Io scoppiai a piangere e lui disse: «Hai fatto tutto da sola, smettila».
Liliana, giornalista (39 anni)
Dario è stato il mio fidanzatino per un paio di mesi, quand’ero ragazza. Era il cugino di una mia compagna di classe, era più grande di me, gentile nei modi. Una sera partecipo al richiamo della leva: nel paese in cui sono nata è un piccolo grande evento di ogni anno, una serata di festeggiamento in cui ci si ritrova con tutti i coscritti. Al rientro, tardi, mi accompagna un caro amico. Sotto casa vediamo un’auto e Dario fuori che cammina avanti e indietro agitatissimo: «Dove sei stata? – grida quando mi vede –. Ti ho cercato tutta la sera. E perché ti accompagna lui, non potevi chiamare me?». Rimando la discussione all’indomani, lui se ne va, io chiedo al mio amico di scortarmi fino alla porta. Quando sono in casa tiro fuori il telefono, che non avevo più guardato per ore. Ci sono 249 chiamate perse di Dario. Lì, ho avuto paura.
Clara, ostetrica (32 anni)
Camerino di un negozio, sto provando reggiseni. A un certo punto mi abbasso per spostare le scarpe e scopro un telefono rivolto verso di me, vicino al pavimento, che spunta dal camerino accanto al mio. Io mi vedo nello schermo, c’è la videocamera interna accesa e il video avviato. Urlo. Subito dopo un uomo sfila il cellulare e scappa, io non riesco a rincorrerlo, sono ancora in slip. Mi sento violata, non so se e come verrà usato quel video. Prima di me, nel camerino c’era una bambina di 11 anni, mi chiedo se sia stata filmata anche lei. Vado poi a denunciare, ma all’inizio il fatto non è riconosciuto come violenza di genere, devo insistere. Sono anni che mi formo su questo tema, ho lavorato anche con donne accolte d’urgenza in ospedale dopo stupri. Lì ho sentito dire da persone con responsabilità: «Ma guarda com’è vestita, se l’è cercata».
Antonella, imprenditrice (59 anni)
Piena estate, caldo torrido. Le due del pomeriggio, città deserta. Ho appuntamento con la mia amica del cuore per andare insieme in piscina, io in bicicletta, lei con il suo cinquantino da 15enne. La aspetto nel posto concordato seduta sui gradini del dehor di un bar chiuso per ferie. Passano i minuti, arriva un uomo in bicicletta. Accosta al muro, proprio dietro di me. Sento dei rumori ma non oso girarmi, vedo solo con la coda dell’occhio che dà le spalle alla mia schiena, le gambe leggermente divaricate, entrambe le braccia davanti a sé, leggeri movimenti ritmici. Cercando di non fare rumore, mi alzo, agguanto la mia bici e mi allontano. Lui si gira e allora capisco cosa stava facendo: le mutande calate, si stava masturbando dietro di me. A distanza di oltre 40 anni, non ho dimenticato il senso di ingiustizia e di ribrezzo che mi ha assalita.
Francesca, impiegata (45 anni)
Avevo 13 anni, non ancora sviluppata, giocavo a basket. Succedeva che l’allenatore ci chiamava una per volta in una stanza, ci faceva i massaggi per sciogliere i muscoli. Così diceva. Però chiudeva la porta a chiave, mi faceva distendere sul lettino e prima mi palpava le cosce, poi andava più su e mi violentava. Nemmeno capivo, mi sentivo male ma non lo dicevo ai miei genitori perché mi vergognavo. Ci tenevano allo sport, «è per il tuo bene» ripetevano. Se glielo avessi detto, anche anni dopo, mio padre sarebbe andato a cercarlo in capo al mondo. La cosa è andata avanti, poi mi sono infortunata e ho smesso di allenarmi. Lui l’ha fatta franca, io invece l’ho pagata cara: anni di psicofarmaci e psicoterapia, rapporti intimi insoddisfacenti. Ne sono uscita, ma non posso smettere di pensare a quante ragazzine quell’uomo ha fatto del male.
Marcella, insegnante (58 anni)
Quando ero adolescente i miei genitori vollero trasferirsi fuori città, in un quartiere residenziale in cui non c’erano ancora i trasporti pubblici. Era normale per noi ragazzi che andavamo a scuola in centro fare l’autostop, sia all’andata che al ritorno. Un giorno, ero ai primi anni di liceo, mi raccolse un uomo adulto, che sembrava conoscere la strada per il mio quartiere ed era molto rassicurante. All’ultimo bivio prima di casa, però, improvvisamente ha cambiato strada e mi ha messo la mano sulla gamba. Non capivo cosa stesse succedendo, ma ho avvertito una lancinante sensazione di pericolo. Ho fatto una cosa incredibile, non so dove ho trovato la forza: appena ha rallentato per prendere una curva, ho aperto lo sportello e mi sono buttata fuori. Lui è andato dritto. Non ho detto nulla ai miei, ma non ho più fatto l’autostop da sola. Gli altri, sì.
Elena, dottoressa (33 anni)
Trascorro la maggior parte del mio tempo in ospedale perché lavoro lì e sono frequenti i commenti a sfondo sessuale su noi donne. Ricordo un episodio in particolare. Ero una specializzanda e stavo svolgendo un tirocinio in Chirurgia. Un giorno entro in sala operatoria con un altro studente. Il medico guarda lui e gli dice: «Preparati perché oggi fai l’intervento con noi», poi si volta verso di me e aggiunge: «La dottoressa invece mi allaccia il camice, anche se probabilmente è più abituata a slacciarlo». E giù risate. Un’altra volta, dopo una mia domanda, il tutor risponde: «Ma cosa parli, che in bocca dovresti avere solo altro». Questo succedeva con chi esercitava un ruolo di responsabilità con le specializzande e sfruttava la sua posizione.
Elisa, architetta (48 anni)
Il mio ex marito faceva uso di cocaina, abitualmente. All’inizio non me ne ero accorta, poi i primi segnali, i primi discorsi tra noi, le liti. Era un professionista affermato, spesso avevamo serate di gala: in pubblico mi riprendeva, mi umiliava, faceva commenti volgari sul mio corpo o raccontava agli altri anche della nostra intimità. Poi mi chiedeva scusa e pensando che tutto questo dipendesse dalla droga io lo perdonavo, lo perdonavo sempre: invece che pensare a me, cercavo alibi per lui e per i suoi comportamenti. Lo giustificavo con gli altri, persino con mia madre: «In realtà mi ama» ripetevo. Poi, sempre davanti agli altri, ha cominciato a tradirmi, anche con più donne, ed era sempre più cattivo, mi insultava, mi mancava di rispetto: io ero completamente annientata.
Marta, studentessa (18 anni)
Mi sono messa insieme a un ragazzo l’anno scorso, lui era in quinta. Era famoso nella scuola: tante fidanzate, vestiti di marca, amici più grandi di lui. Io fingevo di essere a mio agio anche in situazioni che non mi piacevano per essere alla sua altezza, accettavo per esempio che mi toccasse il sedere davanti agli altri. Un giorno un mio compagno che gioca a calcio con lui mi dice che sulla chat della squadra ha condiviso una mia foto e mi mostra tutto. Nello scatto eravamo in un momento di intimità tra noi, io non sapevo che avesse lo smartphone in mano. A quella aveva corredato un’altra foto, che si era fatto da solo davanti allo specchio, in cui mostrava un graffio sulla schiena: «Visto cosa mi fa la mia puttana?» il messaggio sotto. Non sono andata a scuola per una settimana, coi miei fingevo di stare male. A lui ho detto che non volevo più uscire, non si è nemmeno chiesto il perché. Una settimana dopo stava con un’altra.
Gloria, estetista (31 anni)
Ho deciso di lasciarlo io dopo una storia complicata, fatta di alti e bassi, durata 5 anni. Le cose non funzionavano. Avevamo preso un cane insieme, l‘abbiamo sempre considerato come un figlio. Quand’è finita, abbiamo deciso che ce lo saremmo divisi: una settimana io, una settimana lui. Il lunedì, che è il giorno in cui non lavoro, avveniva lo scambio. Tutte le volte che ci incontravamo mi faceva la sua violenza insultandomi: «So che la dai in giro, che scopi con chi ti capita. Guardati, fai schifo. Ma io prima o poi ti becco, ti ammazzo di botte». Queste frasi le ho sentite ripetere tutti i lunedì per mesi. Io ero terrorizzata, pensavo che sarebbe passato ai fatti. Finché un giorno ho chiamato suo fratello maggiore, gli ho detto quello che succedeva e che sarei andata dai carabinieri se il cane d’ora in avanti non me lo portava lui. Così è stato.
Sibilla, commercialista (52 anni)
Sono sposata da 22 anni, abbiamo 5 figli. Mio marito è un uomo che definirei “vecchio stampo”: in casa faccio tutto io, anche se lavoro come lui, e faccio fatica a tenere tutto insieme ma non gliene ho mai fatta una questione. È un brav’uomo, mi ama e lo so. Quello che mi ha ferito però, e che ho sempre tenuto dentro di me, è stato il suo comportamento durante le mie gravidanze, specialmente l’ultima. Ha sempre dato per scontato che la nostra intimità dovesse andare avanti come sempre, anche se ero incinta. Io ho fatto finta di niente, ho accettato la cosa, anche se fisicamente ne ero quasi infastidita. Lo facevo per lui. Con il quinto figlio ho avuto problemi: dovevo fare controlli, faticavo a camminare, ero provata. Gli dicevo che non me la sentivo, che non volevo avere rapporti. Lui insisteva e faceva quel che voleva lo stesso. A volte piangevo, ma lui non smetteva.
Giovanna, cooperante (45 anni)
Pensavo che la mia età ormai mi proteggesse , e invece… Avevo un mal di schiena fortissimo e ho chiesto a una mia amica se conoscesse uno specialista. Lei me ne ha raccomandato uno che lavorava in uno studio senza segreteria e senza altri colleghi. Solo. Seduta dopo seduta, mi sono sentita sempre più a disagio: il modo in cui muoveva le mani sul mio corpo non era normale. Era particolarmente insistente sulle parti intime, morboso direi. Il primo istinto è stato quello di sentirmi in colpa per aver pensato male. Poi però mi sono detta che non era giusto normalizzare ciò che normale non è, mi sono presentata in studio con mio marito e gli ho intimato di restituirmi tutti i soldi. Lui mi ha risposto che era il suo modo “empatico” di lavorare. Ho chiamato la mia amica e le ho chiesto come si fosse permessa di suggerirmi un tale predatore. Ho capito che occorre anche consapevolezza per affrontare simili situazioni.
Rosina, casalinga e pensionata (76 anni)
Non ho mai pensato ci fosse qualcosa di sbagliato nel fatto che tutto, in casa, girasse attorno a mio marito: ai nostri tempi funzionava così, ci siamo sposati nel 1968, io avevo vent’anni. Dopo il primo figlio mi disse che non aveva senso che andassi avanti a lavorare, e io restai a casa. Le carte di credito e i bancomat erano intestati a lui, anche perché in banca e in posta era lui ad andare. E quando avevo bisogno di soldi gli chiedevo se li prelevava e gli giustificavo il motivo. Quasi sempre mi diceva di sì, a volte invece mi proibiva qualche spesa, soprattutto quelle per il mio abbigliamento. Prenotava la vacanze, le visite, quasi sempre veniva con me. Anche le case erano intestate a lui, e le due macchine. Quand’è morto coi miei figli siamo impazziti tra uffici e notai e passaggi di proprietà. Un giorno mia figlia mi ha detto: «Mamma, tu per il mondo non esistevi».
Arianna, studentessa lavoratrice (21 anni)
Certe volte penso che sia una cosa negativa essere donna. Io studio e lavoro di sera per mantenermi. Ogni giorno vivo con la paura che mi possa succedere qualcosa. Ogni volta che torno tardi dal lavoro e devo prendere il treno o la metro cammino con l’ansia. Mi è capitato di essere osservata insistentemente sui mezzi pubblici. In questi casi cerco di avvicinarmi a un’altra donna, magari più grande di me, oppure a qualche signore anziano, anche chiedendo se per favore facesse finta che eravamo insieme. Un paio di volte sono stata seguita nel tragitto tra l’uscita della metropolitana e casa mia, ho accelerato il passo e con il cuore in gola mi sono fiondata dentro il portone. Però non mi sembra giusto: perché una donna deve rinunciare a uscire o addirittura a lavorare?
Agnese, assistente sociale (27 anni)
Avevo 12 anni, giocavo in una squadra di calcio femminile. C’era un fisioterapista di riferimento, aveva 50 anni. Io avevo problemi alla caviglia o al ginocchio ma lui mi chiedeva sempre di togliere anche maglia e reggiseno. Poi iniziava a massaggiarmi lì e nelle zone vicine all’inguine. Io sentivo che c’era qualcosa di sbagliato ma ero piccola. Mi dicevo: cosa vuoi che sia, sei tu che sei pazza. Mi sentivo anche in colpa perché lui sapeva usare le parole giuste e mi faceva sentire importante. Sono arrivata a stare così male che ho smesso di segnalare i miei dolori pur di non tornare da lui. Poi, un giorno, una nostra compagna ha rotto il silenzio e abbiamo scoperto che tutte vivevamo la stessa cosa. Il fisioterapista è stato cacciato ma nessuno si è preso cura del nostro vissuto emotivo. Ho il ricordo di percepire il mio corpo come fosse a pezzi, in totale balia di un altro. Io indifesa.
Maria Assunta, insegnante (61 anni)
Per una ragazza degli anni ‘70 e ‘80 che viveva in un paese del Sud Italia certi atti, certi commenti, facevano parte della vita quotidiana. Questo non vuol dire che non vivevi nella paura di dover subire una pacca sul sedere da un ragazzo su un motorino in corsa. Ricordo ancora con ansia una rincorsa su per le scale del mio palazzo, fino al mio pianerottolo, di un malintenzionato qualche anno più grande di me, che mi sembrava un gigante cattivo e mi ha lasciato con una tale paura da costringermi in casa per alcuni giorni senza il coraggio di girare da sola per un paese apparentemente civile! Mi sembrava normale dover chiedere sempre la compagnia di qualche amica per uscire, perché era considerato poco consono per una ragazza uscire da sola. Quegli episodi di vita quotidiana non venivano raccontati ai genitori per un senso misto di pudore e vergogna.
Elena, consulente di marketing (25 anni)
Stavo andando a piedi a casa di un’amica per passare insieme il pomeriggio. Eravamo in prima media. Io indossavo dei pantaloni rosa. All’angolo della strada metto un piede su un muretto e mi abbasso per allacciarmi le scarpe. Passa un gruppo di ciclisti. Rallentano e mi urlano addosso: «Certo che se ti metti in quella posizione, come facciamo a resistere», «Sei anche vestita di rosa», «Che cosa ti farei». Io sento il mio corpo immobilizzarsi, sono spaventata. Corro della mia amica, agitata. Sua mamma mi chiede che cosa sia successo, io le chiedo il significato delle parole dei ciclisti. Lei mi dice di non pensarci. Sono passati quindici anni, ma so che quello è stato il momento in cui ho capito che il mio corpo poteva essere visto come un oggetto, e io potevo essere in pericolo.