Lucia Truttero, il marito Marco Gibelli e i loro quattro figli - Foto Famiglia Gibelli
Non “possiedono le chiavi”, non sono le “padrone” dell’oratorio o della chiesa. Però le trovi lì: nelle canoniche ci vivono, come famiglie normali, ma con le porte delle loro abitazioni ben aperte. Sono le “famiglie missionarie a chilometro zero”. Coppie e nuclei con figli che hanno scelto di spendere la loro vocazione al matrimonio e alla genitorialità all’interno di una vocazione più ampia, di comunità e di Chiesa. Famiglie normali quanto a impegni di lavoro, educazione dei figli e vita quotidiana, che però abitano in una casa canonica o in un oratorio e si mettono a disposizione di una parrocchia e della sua gente.
Come? A volte nei ruoli tradizionali di catechista o animatore, altre coadiuvando i sacerdoti e facendo con loro fraternità, altre ancora accogliendo persone bisognose. Ma soprattutto “essendoci”, abitando appunto la Chiesa per renderla accogliente, attraente, un luogo “familiare”. Per molte di queste famiglie – una trentina solo nella Diocesi di Milano, decine di altre un po’ in tutta Italia – la scelta di andare a vivere in una canonica è stata certo la risposta a una chiamata ma, soprattutto, una modalità di realizzazione del loro ideale di famiglia.
Giulia de Filippis, il marito Francesco Reggiani e la loro bambina - Foto Famiglia Reggiani
«Quando ci preparavamo al matrimonio avevamo un desiderio: vivere non in un appartamento solo per noi, ma in una casa che fosse comunque aperta all’accoglienza», raccontano Giulia De Filippis, 26 anni, e il marito Francesco Reggiani, 30, con una bimba di 2 anni. Cresciuto in oratorio lui, imprinting familiare per lei, riminese, i cui genitori vivono in una casa-famiglia dell’Associazione Giovanni XXIII. «Così quando ci siamo sposati nel maggio 2018, abbiamo accettato subito con entusiasmo la proposta del parroco di Novate (Milano) di andare ad abitare nella canonica prima e nell’oratorio poi». Dove sono una presenza fissa e di riferimento come educatori dei giovani e catechisti. «Ma non siamo indispensabili – si schermiscono Giulia, educatrice di comunità e Francesco, consulente informatico –. Ci sono tanti altri che hanno ruoli fondamentali in parrocchia. Noi cerchiamo soprattutto di coltivare legami di amicizia. E l’abitare in oratorio ci permette di vivere in comunione con i preti, i seminaristi e le religiose, uno scambio di vocazioni arricchente».
Chiara Gandiani con il marito Giovanni Balestreri e don Piercarlo Fizzotti - Foto Riccardi
Per le “famiglie missionarie a chilometro zero”, che ricevono dai vicari episcopali una lettera d’invio (per 5 anni, rinnovabili), l’unica facilitazione è il comodato d’uso gratuito della casa. Non sono previsti compensi per il servizio alla Chiesa e quindi tutti i nuclei vivono del loro lavoro. Spesso impegnativo, così come l’educazione dei figli che crescono durante l’esperienza di servizio. È il caso di Chiara Gandiani, 43 anni, e Giovanni Balestreri, 48 – sposati da 18 anni e con tre figlie adolescenti – che si dividono tra il lavoro in un centro per donne maltrattate lei, la Caritas per la gestione di un bene confiscato e la Sacra Famiglia, lui. Chiara e Giovanni sono in realtà dei “veterani della missionarietà”, avendo fatto esperienze in Sri Lanka con la Giovanni XXIII e in Perù come Fidei donum, a sottolineare il legame tra le “chiese sorelle”. Ma anche per aver concluso da poco un mandato a Gaggiano, dove nella frazione di Vigano era venuta a mancare la figura del parroco. «Non siamo teologi né i “padroni” della parrocchia: spesso non avevamo il tempo materiale per partecipare alle funzioni», spiegano Chiara e Giovanni. «Avevamo però il desiderio di servire, di essere utili e ci siamo messi a disposizione per rispondere ai bisogni della comunità». Con l’accoglienza di persone in difficoltà, ma anche più semplicemente tenendo aperta la loro casa per quella che chiamano «la pastorale del caffè». La disponibilità, cioè, all’ascolto dell’altro, al confronto su necessità, dubbi e timori. «I cristiani sono tutti chiamati a essere missionari, ma prima ancora discepoli sempre in cammino – spiegano Chiara e Giovanni –. Ecco, noi vogliamo essere dei pellegrini, sempre provocati dall’irrequietezza del Vangelo». Occorre anche saper superare alcune diffidenze iniziali, in contesti che a volte faticano ad andare oltre il “si è sempre fatto così”. «È nell’incontro quotidiano con le persone, però, che si gioca la concretezza della fede, si superano le incomprensioni e ci si riscopre fratelli».
Per alcune di queste famiglie i contesti sociali in cui vivono sono molto sfidanti. Come per Lucia Truttero, fisioterapista, e il marito Marco Gibelli, giornalista, che abitano da 6 anni ormai nella parrocchia di Sant’Eugenio a Milano, vicino all’ortomercato, in un quartiere in cui la metà degli 8mila abitanti è di origine nordafricana, un quarto di altre provenienze e solo il resto di italiani. Impegnati da sempre nel movimento di CL, a fine mandato hanno accettato di accompagnare la transizione, anche perché nel frattempo è stata creata una nuova unità pastorale con la parrocchia di San Pio V. Il loro servizio è soprattutto quello della diaconia, quindi dell’aiuto a chi ha bisogno, ma molto della loro testimonianza si gioca nei consueti rapporti sociali di una famiglia. «Con quattro figli di 10, 8, 6 e 3 anni che vanno a scuola i contatti sono frequenti in ambiti molto diversi. E si agisce per attrazione, mostrando la bellezza della famiglia e della Chiesa, il senso profondo delle feste come la Pasqua – spiegano Lucia e Marco, 35 e 43 anni –. La nascita di nostra figlia, il suo Battesimo qui nella parrocchia in cui abitiamo, sono stati davvero una festa di tutta la comunità e noi, oltre ad accompagnare, ci sentiamo accompagnati nel cammino di fede». Viene da chiedersi come si faccia con il lavoro e 4 figli a occuparsi anche così tanto dei bisogni della parrocchia e della comunità: «Il tempo si trova e quando la sera sei stanco ma contento per quel che hai fatto, per la risposta che hai dato a una vocazione, sei sereno e arricchito. Lo percepiscono anche i figli che sono contenti di avere sempre la casa piena di persone», concludono Lucia e Marco.
C’è però un’ultima notazione che ricorre come una costante in tutte le esperienze ascoltate. È fondamentale custodire il rapporto di coppia, preservare anche tempi e spazi della propria famiglia. Perché non si può essere “chiesa domestica” se non si è anzitutto famiglia. Non si può testimoniare una bellezza se non la si coltiva con cura.
Non è semplice dare una definizione sintetica di che cosa siano le “Famiglie missionarie a chilometro zero”. Perché si tratta di un’esperienza viva in continua evoluzione. Non è un “progetto” definito, ma un cammino cominciato spontaneamente. Non esiste un “modello” da applicare, solo poche linee generali. Assieme a uno stile comune che poggia su alcune parole chiave come: abitare, gratuità, apertura, ascolto, fraternità. Da declinare, come famiglia, all’interno della Chiesa.
Tutto è cominciato nel 2013 nella Parrocchia della Pentecoste (guarda caso…) nel quartiere popolare di Quarto Oggiaro a Milano. Lì alcuni nuclei hanno iniziato a incontrarsi per condividere preghiera, formazione, vissuti di impegno in diversi movimenti ecclesiali, precedenti percorsi missionari o di fraternità. Con il desiderio di mettersi al servizio della Chiesa, delle comunità, come coppie o meglio come intero nucleo familiare, assieme ai figli. Di qui è nata l’idea di “mandati missionari” quinquennali, eventualmente rinnovabili nella stessa comunità o in altre. Ogni coppia vive del proprio lavoro, non riceve alcuno stipendio per il servizio reso, ma vive in un oratorio o in una casa canonica con un contratto di comodato d’uso. Gratuitamente abita in una chiesa, ma soprattutto “abita” la Chiesa in spirito di gratuità. Donando tempo e impegno, sentendosene profondamente parte proprio come famiglia, al di là e al di fuori di ruoli “ufficiali” o predeterminati. Semplicemente lasciando aperta la porta della propria casa, l’abitazione di una normale famiglia alle prese con la quotidianità comune fatta di lavoro, preoccupazioni, problemi organizzativi, educazione dei figli. Capace, però – proprio perché famiglia, come in una famiglia – di “stare accanto”, offrire e ricevere sostegno l’uno dagli altri. Testimoniando la fraternità. Annunciando e attraendo. Dando ragione – grazie all’ascolto delle persone, alla condivisione di gioie, dubbi e dolori, alla preghiera in comune – di quella speranza che fonda e anima il cristiano.
Solo nella diocesi di Milano oggi le “famiglie missionarie a chilometro zero” sono 25, altre 4 hanno appena concluso l’esperienza, altre 8 sono in fase di discernimento o stanno aspettando di insediarsi, alcune anche di origine straniera, già attive nelle pastorali dei Paesi di provenienza e pronte ad impegnarsi qui da noi. Esperienze simili si sono poi sviluppate autonomamente in altre diocesi come Treviso, Piacenza, Padova, Torino, Firenze, Verona, Como, Vercelli, Alba, Bologna, Modena, Reggio Emilia, Fiesole, Massa marittima-Piombino, Pistoia, Ancona, Caserta e Castellaneta. In alcuni territori le famiglie abitano accanto ai preti e li accompagnano, in altri sono l’unica presenza dopo che la crisi delle vocazioni sacerdotali ha lasciato scoperte molte strutture, oppure ancora animano gli oratori. Appunto senza applicare un modello rigido, ma cercando di dare una risposta alle diverse situazioni di bisogno.
«È anche il segno di una Chiesa che sta cambiando, non solo dal punto di vista organizzativo», sintetizza monsignor Luca Bressan, vicario episcopale per la cultura, la carità, la missione e l’azione sociale della Diocesi di Milano. «Nella quale si valorizza la sinfonia delle diverse vocazioni, superando la frattura tra clero e laici. È una Chiesa che, nella gratuità, si pensa sempre come un “noi”».