martedì 30 luglio 2024
Il filosofo Fabio Cantelli Anibaldi riflette su web, educazione, adolescenti e senso del limite alla vigilia del Festival di Ceresole Reale (To), dove si parlerà di società e senso della convivenza
Cari ragazzi, se volete crescere, state in silenzio da soli. Senza connessione

Foto Icponline

COMMENTA E CONDIVIDI

Camminare in montagna aiuta a riflettere. Lungo il percorso si impara a comprendere quanto può essere preziosa la presenza, accanto a noi, di altre persone. E quanto è importante creare con quelle la collaborazione più efficace. Quasi sempre, nei passaggi più impervi, su un sentiero complicato ma anche e soprattutto nella vita, l’individualismo non serve. Anzi, quasi sempre è deleterio. Meglio la condivisione, la solidarietà, la comunanza di obiettivi. Si sale - e si vive - con più facilità e cuore più sereno se si riesce a mettere in atto una strategia fondata sull’aiuto reciproco. Aumentano la possibilità di successo e migliora la relazione. E, all’opposto, quanto più migliora la relazione, tanto più aumentano la possibilità di riuscita. Ecco il segreto dei rapporti che ci rendono pienamente umani ma che, in un’epoca di conflitti e di disgregazioni ad ogni livello – dal piano internazionale a quello sociale e familiare – occorre tornare a indagare e comprendere, ripetendocene i fondamenti.

La seconda edizione di “La montagna disincantata”, festival della parola in-sorgente, che si svolgerà a Ceresole Reale (Torino) da venerdì 2 a domenica 4 agosto, ha proprio questo obiettivo. Rimettere in fila le buone ragioni che costruiscono una “società”. Parola vastissima che racchiude concetti importanti, anzi insostituibili, ma troppo spesso oggi appesantiti dalla retorica, dalle falsificazioni, dai pregiudizi. Così che, quando si parla di valori sociali si fa una grande fatica a coglierne il senso. Non solo, spesso si confonde il sociale con il personale, l’interesse privato con il bene comune. Perché questo vuoto? Perché abbiamo smarrito la capacità di porci le domande giuste? E, soprattutto, perché abbiamo smesso di educare ai principi che costruiscono quel “minimo universale denominatore” a partire dal quale possiamo riconoscerci come una società e chiamarci di nuovo umani? A Ceresole, in questo week-end, ne discuteranno scrittori e ricercatori, filosofi e teologi, sacerdoti e laici (tra gli altri don Luigi Ciotti, il vescovo Antonio Staglianò, il filosofo Paolo Heritier, lo scrittore Walter Siti, vedi il programma completo su www.laparolainsorgente.it).

«Tornare ad essere umani per rimettere insieme i fondamenti di una convivenza sociale è una questione di enorme complessità che abbiamo scelto di affrontare attraverso alcune tematiche di fondo», spiega Fabio Cantelli Anibaldi, curatore del festival, filosofo e scrittore. «Vorremmo innanzi tutto fermarci un po’ a riflettere insieme, prendere atto della situazione in cui l’Occidente è precipitato, sottolineare la drammaticità di un contesto in cui il dato ricorrente è la conflittualità, la contrapposizione, la violenza. Rischiamo di assuefarci e, troppo spesso, la nostra unica risposta è l’indignazione. Ma non basta. L’indignazione, la reazione emotiva devono essere l’occasione per andare oltre, per ricomprendere quello che ci sta sfuggendo».

A suo parere, in questa grande emergenza educativa responsabile dello sfaldamento valoriale a cui assistiamo in tutti gli ambiti della società, qual è l’aspetto più importante?

L’Occidente ha totalmente rimosso il senso del limite, compreso quello che ci costituisce in quanto esseri umani, il limite dell’esseri mortali. Dovunque è in atto una rimozione della mortalità, un tacito accordo a estromettere la morte dall’orizzonte della vita quotidiana. Ma se cancelliamo quest’orizzonte lo stare al mondo perde di senso e anche di dignità. A ben vedere, l’origine del pensiero filosofico muove da lì, da quella domanda cruciale che chiede che senso può avere vivere se poi un giorno si muore. Le prime comunità umane nascono dalla consapevolezza della natura effimera della vita umana e dal bisogno di avvicinarci gli uni agli altri per far sentire quelle vite meno sole, meno abbandonate al loro destino. Una società che ha perso l’anima comunitaria è una società che ha rimosso dal suo orizzonte psichico ed esistenziale questa consapevolezza, dunque una società di individui che al massimo coabitano senza però sentirsi “con-sorti”, persone accomunate dallo stesso destino e capaci quindi di immedesimarci nella vita degli altri, gioire per le loro gioie e soffrire per le loro ferite. Durante il Covid papa Francesco ha spesso ripetuto: “Nessuno si salva da solo, perché siamo tutti sulla stessa barca”. Ma la pandemia è passata e non abbiamo saputo cogliere l’occasione di tornare a essere almeno un po’ con-sorti, tornare a essere comunità.

Qual è l’ostacolo più ingombrante tra i tanti che impediscono all’uomo contemporaneo di riconoscere la sua finitezza e che più contribuisce alla rimozione del senso del limite?

Direi l’illusione di potenza provocata dalla tecnologia, dall’uso non solo ricorsivo ma compulsivo di formidabili dispositivi di comunicazione, controllo, previsione. Sento ripetere da cinquant’anni che la tecnica è solo uno strumento da usare nel migliore dei modi – anche oggi sento lo dire riguardo la cosiddetta “intelligenza artificiale” – ma a questo modo superficiale di considerare la questione sfugge che l’applicazione dello strumento crea nel contempo una forma mentis, un particolare modo di percepire la realtà e tutto quello che contiene. Il fulcro della fascinazione tecnologica sta nella possibilità di agire efficacemente a distanza, senza sporcarsi le mani. Il che provoca un’ebbrezza di potenza se non un senso di onnipotenza. Pensiamo solo a come la tecnica ha inciso nell’ambito bellico. Nelle guerra di trincea del primo Novecento tutto era ravvicinato e capitava anche d’incrociare o incontrare lo sguardo spaventato o implorante del nemico un attimo prima di ucciderlo, sguardo che avrebbe turbato la coscienza dell’omicida sino all’ultimo dei suoi giorni. Oggi si uccide a distanza, con missili e droni, a distanza e in modo indiretto, quasi “senza colpo ferire”. E questa distanza permette di agire senza sentirsi responsabili, permette una violenza anonima, in guanti bianchi. Ma se togli all'esistenza umana la sua responsabilità corrompi la sua libertà in arbitrio. La libertà è un’aspirazione universale, non esclusiva. Bisogna imparare a essere liberi con gli altri non contro o a scapito loro, e solo la responsabilità insegna a vivere la libertà come un bene comune. La tragedia dell’Occidente è quella di una libertà degradata ad arbitrio e, insieme, quella di una tecnologia potentissima capace di rimuovere il senso del limite connesso alla consapevolezza della mortalità. Ma una civiltà che nega la sua mortalità finisce per essere violenta: ti infliggo la morte per sentirmene immune, superiore.

Come mai scuola e famiglia non sanno o non riescono più ad affrontare questi temi? Manca il coraggio di farlo o le parole per dirlo?

La scuola dovrebbe essere il luogo dove non ti vengono date risposte ma dove vieni educato a porti domande, a cominciare da quelle più scomode, quelle che ti insegnano a sospettare delle semplificazioni, degli slogan, delle riduzioni della complessità della vita. Da tre anni sto girando i licei di mezza Italia per dialogare con i ragazzi sulle questioni brucianti dell’adolescenza, età per molti versi peculiare ridotta però dal discorso pubblico e anche “scientifico” a una serie di schemi e cliché che non danno conto della sua natura iniziatica e per certi versi trascendentale. Dialogo che include e per certi versi muove dalla mia esperienza di adolescente ghermito e sequestrato da una tossicomania da cui faticosamente mi liberai durante una permanenza decennale nella comunità di San Patrignano. Ebbene ogni volta si crea con quei ragazzi non una comunicazione ma una comunione emotiva perché loro avvertono nelle mie parole il sapore dell’esperienza, della vita vissuta e ancora palpitante, e di questo hanno più che mai bisogno gli adolescenti, non di informazioni e saperi astratti, tantomeno di prescrizioni e raccomandazioni. Vogliono sapere appunto che senso ha vivere se poi un giorno si muore e anche vogliono sapere - domanda che mi rivolgono sempre e sempre mi commuove - se esiste la felicità. Si, esiste la felicità – rispondo – e sta nella ricerca della felicità, nel perseguire con tenacia, dedizione e rigore la propria passione fondamentale, quel particolare fare pratico o intellettuale che rappresenta la vostra ragion d’essere, il perché del vostro stare al mondo. Di questo parlo con i ragazzi, come del fatto che è importante imparare a darsi dei limiti perché il limite può essere trasformato da nemico in alleato. A cominciare da quello costitutivo della morte: se la vita terrena fosse illimitata, eterna, ci verrebbe presto a noia per poi diventare un incubo, una prigione sempre più asfissiante. È la consapevolezza del suo essere limitata a stimolarci a fare attenzione a ogni suo singolo momento in quanto unico e irripetibile, a viverlo con partecipazione e scoprirne anche aspetti inediti, scoprire che il meraviglioso spesso è travestito da ordinario. Di questo parlo con gli adolescenti e si tratta di questioni che li accendono, li scuotono. Temi di cui sono affamati ma per i quali faticano a trovare interlocutori.

Sono percorsi di senso che dovrebbero essere proposti e approfonditi in famiglia. Purtroppo, anche qui dobbiamo registrare vuoti educativi sempre più grandi, quasi che fossero i genitori stessi ad avere bisogno di essere accompagnati e aiutati.

È vero, ma va riconosciuta la sproporzione delle forze in campo. Le famiglie – parlo quantomeno di quelle che cercano per il bene dei figli di opporsi a questa mercificazione della vita – si trovano a lottare contro un apparato di straordinaria potenza. Una potenza che è essenzialmente seduttiva. Le cosiddette piattaforme di comunicazione, siano esse istituzionali o informali – insomma l’industria del web – fanno leva sulla paura e l’angoscia del restare anonimi, invisibili, che nell’era dell’individualismo di massa viene percepito come il peggiore dei destini. L’Occidente è accomunato da un’ideologia che ha i caratteri dell’idolatria, l’idolatria dell’io. L’Occidente è egocentrico e dunque incompatibile con qualsivoglia dimensione sociale men che meno comunitaria. Il successo planetario dei cosiddetti “social” fa leva sul bisogno degli individui di farsi notare, di essere al centro dell’attenzione, attenzione che cercano di suscitare con azioni o provocazioni costanti. Il problema è che quest’attenzione pubblica che produce evidentemente momenti di ebbrezza e l’illusione di contare qualcosa non basta mai e allora si continua a ricercarla con comportamenti ricorsivi e compulsivi tipici di dinamiche di dipendenza come quelle dalle droghe. Per uscirne, o almeno prevenirle, bisognerebbe analizzare in modo radicale la natura astratta, artificiale, di concetti quali “io” o “identità”. Ma, salvo eccezioni, né la scuola né la famiglia mi sembrano al riguardo molto attrezzate.

Cosa potremmo dire a questi ragazzi vittime di un meccanismo così perverso?

Evitare discorsi astrattamente pedagogici ma dire loro parole cha nascono dall’esperienza. Io l’ho vissuta, alla fine degli anni 70, quindi secoli prima del web, quelle aspirazioni all’assoluto che sono poi confluite poi in un’adolescenza solipsistica e narcisistica, cullata nel sogno di poter fare a meno degli altri grazie al senso di onnipotenza che mi hanno dato prima i digiuni poi le droghe. Ed è a partire da quella fame di assoluto sopravvissuta per fortuna a molte catastrofi che parlo loro dell’importanza, alla loro età, dell’apprendere l’attenzione, il silenzio, lo stare un po’ da soli, appartati dal gruppo. Esperienze oggi molto ardue perché l’attenzione è costantemente insidiata da connessioni e “notifiche”. Non serve ritirarsi ogni tanto a riflettere nella propria camera se ci si porta dietro il cellulare, finestra costantemente aperta sui rumori del mondo, sulla chiacchiera universale, sulle breaking e fake news da cui è infestato.

Anche la pervasività dei social rientra, in qualche modo, nella difficoltà di inquadrare in modo corretto il tema del desiderio?

Si tratta di un discorso scomodo, ma che va fatto. Il desiderio è costitutivo dell’esistenza umana, ma oggi il desiderio è corruzione e perversione del desiderio stesso. Per comprenderlo devo fare una premessa. Interrogandomi per decenni sulla natura radicale dei miei desideri adolescenziali, quelli che mi portarono a diciott’anni all’incontro con l’eroina, ho colto che ogni desiderio è in fondo nostalgia della beatitudine prenatale, di quel deliquio incosciente però senziente che si deposita negli abissi del nostro essere e, attraversato il passaggio traumatico della nascita, ci induce inconsapevolmente a cercare il benessere e magari un simile paradiso su questa terra. La fascinazione che da millenni esercitano le droghe sulla psiche umana, fascinazione destinata a diventare dipendenza, sta nel fatto che stupefacenti come l’eroina rappresentano il più formidabile surrogato della beatitudine che abbiamo vissuto prima di nascere, immersi nel liquido amniotico del grembo materno. Ogni desiderio è nel profondo desiderio di quell’infinito. Ma se non diciamo a un ragazzo che quello è un paradiso perduto e che quella sete d’infinito non verrà soddisfatta, non solo da nessuna droga, ma nemmeno dagli oggetti del desiderio prodotti a spron battuto dal mercato, non solo non lo proteggiamo da future schiavitù ma consentiamo ai suoi desideri ignari del loro orizzonte e del loro limite, di trasformarsi in pulsioni predatorie e anche violente. L’appropriazione di corpi e di cose, gli stupri e i furti, hanno alle spalle desideri degradati a impulsi, desideri che, ignari del loro mirare al cielo e all’assoluto, trasformano la loro sete di Essere in fame di avere. Il desiderio autentico è autotrascendenza, libertà dall’io. Il desiderio ridotto a pulsione è arbitrio dell’io, sua insaziabile voglia di possesso.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: