giovedì 24 ottobre 2024
Il nostro apparato giuridico è sempre più punitivo nei confronti dei genitori. Al convegno annuale di Avvocatura e Famiglia l'ha spiegato nella sua relazione introduttiva il presidente Gancarlo Savi
Anche i giudici scoraggiano matrimoni e nascite

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La scelta del matrimonio e della genitorialità oggi non appare scoraggiata soltanto da una serie di cause culturali e antropologiche sempre più potenti e vincolanti, ma anche da scelte giuridiche che, nei suoi momenti fisiologici ma ancor più quando subentra una crisi, attraverso una moltiplicazione farraginosa degli attori in campo (servizi sociali, psicologi, consulenze tecniche d’ufficio, mediatori, curatori speciali del minore, ecc), si trasforma in una macchina intrusiva e soffocante per la vita privata e familiare, finendo per rendere l’ordinaria conflittualità di coppia una colpa da punire pesantemente, peraltro con criteri troppo spesso discrezionali. Sullo sfondo riemerge il dibattito sugli esiti, considerati profondamente negativi, innescati dalla riforma Cartabia. È l’analisi che l’avvocato Giancarlo Savi, presidente dell’associazione nazionale Avvocatura e famiglia, ha tenuto nei giorni scorsi a Roma in occasione del convegno annuale intitolato “Cosa significare fare famiglia oggi”, oltre a una serie di corsi sui giudizi di separazione e divorzio. All’incontro, moderato da Xavier Martinez-Brocal, sono intervenuti Anna Cugno (Università di Torino); Michele Sesta (Università di Bologna); Antonello Spadafora (Università Roma Tre); Adriana Neri (Pontificia Università Santa Croce). Le conclusioni sono state affidate a Maria Giulia Salvadori (Università di Torino). Della relazione introduttiva di Savi riportiamo qui sotto ampi stralci.

È l’amore che fonda l’umano consorzio familiare.

In un passato prossimo si era ben messo in luce come l’allarmante prospettiva del rapporto di coppia che giungeva alla determinazione di costituire un nuovo nucleo familiare, secondo questo o quel modello giuridicamente significativo, si esponeva al rischio sempre più evidente di un declino del “noi”, quale sintesi dell’unione esistenziale, rispetto all’esuberanza persino proterva del singolo “io”. Oggi quell’allarme si è avvicinato fortemente al dato di realtà, a tratti superandolo. Si è diffusa difatti in questi ultimi tratti temporali la conclusione secondo cui le relazioni affettive di coppia, con evidenza statistica assolutamente indubbia, si trasformano in rapporti fortemente aleatori, densi di responsabilità vincolanti, fonte anche di pericoli esistenziali di vario segno e natura, persino sul piano dell’integrità psico-fisica. La prospettiva di un fallimento del rapporto familiare è oramai un dato che sembra somatizzato dai più, soprattutto nelle giovani generazioni, praticamente scontato; con quel sottinteso secondo cui corre consapevolezza nel momento stesso che l’amore è vivo e forte, che l’amore fisiologicamente “muore”.

Ancor più severa appare la prospettiva che il piano giuridico è così incerto ed imprevedibile, da costituire per i più un sentire disilluso e guardato con sommo sospetto, da scemare in una sorta di “terrore” per le possibili conseguenze, che a volte possono persino produrre un vero e proprio annichilimento della persona, con perdita persino dei beni primari all’esistenza umana (casa, autonomia di sostentamento, etc.). Se questo è vero, vediamo un po’ se la nostra analisi, lo dico subito, estremamente preoccupata, ha ragion d’essere oppure è frutto di un periodo particolarmente alienante, professionalmente dico, cui ha certo concorso questa nuova alluvione riformatrice (la cosiddetta riforma Cartabia), che peraltro non riesce a “giungere in porto”, con azzeramento della competenza professionale pazientemente accumulata in decenni di sacrifici dedicati alla materia; un costo umano davvero grande!

Qualche dato appare a questo scopo indispensabile. Nel volgere tutto sommato di un limitato spazio temporale, siamo passati dai 290.009 matrimoni dell’anno 1990, passando per i 284.210 dell’anno 2000, (meno 14.000), per i 217.700 dell’anno 2010, (meno 83.000) per i 96.841 dell’anno 2020, (meno 194.000) sino ai 189.140 (di cui primi matrimoni 146.122) dell’anno 2022, (meno 101.000).

Peraltro, dopo la pandemia si è registrato un lieve incremento per effetto dei rinvii delle celebrazioni che dovevano effettuarsi nel 2020 e 2021. Inoltre, l’incremento è soprattutto quello delle seconde nozze. Da considerare poi che praticamente 1 su 2 matrimoni è celebrato con il rito civile, dato che ci descrive diciamo la quota sociale fedele al messaggio etico della convinzione di fede. Come si vede lo stacco maggiore rispetto alle anteriori tradizioni culturali avviene nel 2010 prima, per accentuarsi successivamente, sino alla piccola ripresa del 2022, ma come visto da depurare dei molti matrimoni rinviati nel due anni precedenti. Il dato sulle separazioni personali segnala che nell’anno 2022 sono state 89.907, di cui l’83% con il rito consensuale (nel 2002: 79.000). Il dato dei divorzi segnala che nell’anno 2022 sono stati 82.596, di cui il 71,5% con il rito congiunto (nel 2002: 41.000).

Il secondo dato impressionante, parzialmente connesso, è quello dei rapporti affettivi, insomma, quel “promettersi amore per tutta la vita” sta diventando una aspirazione minoritaria, peraltro ad età sempre più avanzata. Quali ipotesi causali: risorse economiche? Primazia della libertà individuale? Mera evoluzione culturale, direi antropologica? Crediamo che sia proprio l’elemento della libertà individuale, ritenuto dai singoli sempre più non negoziabile, l’elemento prorompente!

In sostanza, non v’è una disponibilità ottimistica e fiduciosa all’assunzione delle responsabilità connaturali a vincoli esistenziali, personali, stretti o strettissimi, quali il matrimonio e la filiazione. Le convivenze di fatto registrate, con trascrizione del relativo contratto di convivenza, sono praticamente trascurabili, seppur non risultano noti dati statistici precisi.

Le convivenze libere attestate anagraficamente, mediante lo stato di famiglia, unitamente a quelle totalmente libere, nel senso che non sono neppure anagraficamente censibili come coppia che condivide il quotidiano sotto lo stesso tetto, mantenendo separatezza di vita e ritrovandosi soltanto nei momenti liberi dal rispettivo impegno lavorativo, sono oggi il modello familiare più desiderato. I motivi sono intuibili e chiari: diciamo il comfort affettivo, non vede nessuno dei lati limitativi e le difficoltà connesse al vivere sotto lo stesso tetto. Appunto, fuga da ogni responsabilità ed ognuno a casa propria.

Le unioni civili dell’anno 2022 sono state censite come pari a n. 2.813, un modello decisamente minoritario.

La deduzione di fondo denunciata sembra trovare conferma dal dato del numero di nascite fuori dal matrimonio, che sono crescenti, ma l’elemento maggiormente significativo è quello attestato ufficialmente dall’Istat, sulle famiglie composte di una sola persona, che sono pari al 33%, in costante crescita, mentre lo stesso Istituto segnala che ben il 67% trova soddisfacente fare attività da soli (di cui 74% donne e 61% uomini).

Cosa ci dicono allora questi numeri? E con ciò torniamo all’interrogativo: perché l’Avvocatura oggi si cura di richiamare l’attenzione di tutti su questi numeri coniugandoli con la denunciata indifferenza e superficialità generale, in uno alla problematicità delle riforme introdotte con legge ordinaria e più in generale del diritto vivente applicato in concreto? E quanto incide il degrado dei costumi sociali? Sono elementi interconnessi?

Il dato significato nella stessa direzione riguarda però la natalità. Nell’anno solare 2002 sono stati 538.198, mentre nell’anno 2022 sono stati 393.333 (dei quali 163.317) nati fuori dal matrimonio, toccando il minimo storico assoluto. Questo indice di natalità del nostro Paese corrisponde a 1,24 figli per donna residente (peraltro con incidenza importante del numero dei figli di donne immigrate). Si sa che i numeri invecchiano presto, e nel 2023, ce lo dice l’Istat proprio in queste ore, i nati sono scesi a 379.890, pari al -3,4%; il trend sembra tragicamente inarrestabile anche nel 2024; questa decrescente natalità prefigura obiettivamente il crollo dell’attuale stato sociale ed altre sciagure, ed è anche inversamente proporzionale all’aumentare della popolazione (dai 57.321.070 del 2002 ai 58.997,201 del 2022).

È sotto gli occhi di tutti che il rapporto familiare forte degli anni Sessanta, Settanta, cioè della rinascita nazionale, non esiste più. Oggi la famiglia è frammentata, a tal punto che gli anziani non sono soltanto soli - quelli più fortunati sono coloro che ancora possono almeno contare sull’altro coniuge - , ma in condizione di solitudine davvero triste e penosa. Provate a guardare negli occhi, magari a prenderlo per mano almeno idealmente (corre in questi giorni il 20° anniversario della riforma sull’A.d.S.), un anziano, ancor più se autosufficiente, anche nella migliore RSA, specie se rimasto/a vedovo/a, coglierete la sofferenza profonda dell’allontanamento dai propri figli, dai nipoti, etc., dall’ambiente domestico, cioè dagli affetti e da ciò di più caro, ai quali magari ha dedicato tutto se stesso, con grande sacrificio; mi pare che non debbo andare oltre, salvo a dire che da un lato la solitudine obbligata è persino tossica per la salute psico-fisica, mentre la qualificazione giuridica dei nonni è codificata in senso positivo.

Questa riflessione mi serve a rimarcare come questo primo esempio, per le giovani vite, potenziali coniugi o conviventi, non è certo un esempio edificante, disillude subito in tono nichilistico.

L’altro esempio potenzialmente negativo che non milita a favore dell’idea dell’unione di una vita comune, si desume dalla odierna genitorialità. Come noto, la posizione giuridica del figlio - indissolubile - è da alcuni definita come quella di soggetto portatore di un interesse preminente e superiore, ma la reale valenza di principio evocata è esattamente quella di esigenza di tutela del suo miglior interesse; questo dato culturale prima che giuridico si reputa universalmente condivisibile, nel momento in cui la dignità del genitore conservi quel rispetto essenziale ad esso connaturale, secondo il fascio di doveri e diritti reciprocamente involgenti genitori e figli.

L’ultima occasione che però ci fa riflettere nel ridetto senso preoccupato, riguarda tra altri esempi, la strutturazione dei giudizi di separazione e divorzio, ove siano presenti figli minori, loro malgrado coinvolti nella crisi della coppia genitoriale, nonché in misura diversamente significativa, del giudizio di regolamentazione dell’esercizio della responsabilità genitoriale per i figli nati fuori dal matrimonio.

La recente riforma Cartabia che ha introdotto il nuovo rito uniformato, costituente il modello processuale ordinario per tutta la materia, ha radicalmente modificato queste attività giurisdizionali, vieppiù ove la domanda trainante è appunto quella tra adulti per l’adeguamento del loro status personale.

Ebbene, il Giudice, anche in queste controversie, è munito di poteri officiosi così rilevanti - sia sul piano dell’attività probatoria che di quella decisoria -, che non hanno precedenti in assoluto nella storia recente del nostro processo civile, da far restare davvero perplessi persino sul se si tratti ancora di attività giurisdizionale, ovvero oramai sia attività amministrativa delegata alla giurisdizione.

L’art. 473-bis.2 c.p.c. ne è la massima espressione (deroga all’art. 112 c.p.c., assunzione di prove formulate officiosamente o inammissibili, etc.), ma numerose sono le norme univoche, tra le quali il nuovo ruolo del p.m., dotato di straordinari poteri che non hanno pari, neppure nel processo penale (dispone dei Servizi Sociali, indaga a tutto campo senza che le parti private ne possano avere minima contezza per trovarsi poi a difendersi in pochi giorni su fascicoli misurabili in altezza, etc.); limitandoci ancora al macroscopico, tali giudizi non sembrano più rispettosi del principio per cui all’allegazione dei fatti debba seguire l’accertamento di verità e la sua declaratoria, dipanando torti e ragioni; attraverso anche solo altri tre/quattro artt. 473-bis.25, 26, 27 e 43 c.p.c., si coglie a piene mani che il processo piuttosto che destinato ad accertare i fatti e riconoscere il buon diritto di colui che domanda tutela, si contorce su se stesso, attraverso vari nuovi attori (C.t.u. di specie, mediatori familiari, coordinatore genitoriale e Servizi Sociali), in una sorta di organizzazione, non solo intrusiva nella vita privata e familiare, ma di cura attiva, diciamo di sostanziale rieducazione, pietosamente denominata “sostegno alla genitorialità”, dispensata in un larghissimo numero di casi, ovvero, di intervento parimenti massivo dei Servizi Sociali, anche ben oltre il loro ruolo istituzionale. Questa sorta di psicoanalizzazione di massa è sotto gli occhi di tutti.

Da sottolineare come apparentemente le nuove disposizioni della Cartabia regolano il processo, ma in realtà incidono profondamente sul piano del diritto sostanziale, quantomeno nei fatti.

Comunque, oggi non è raro leggere in un provvedimento decisorio, ad esempio, che: i genitori sono risultati portatori di condizioni personali critiche; o affetti da disturbi del comportamento, in genere bordeline, narcisistico, alimentare, personalità con scivolamenti di matrice psicotica, oppure personalità tarata su assetti di matrice narcisistica, tendente al controllo sull’altro, alla grandiosità di sé, all’esclusione dell’altro genitore, oppure su altro versante, tendenza ad ingaggiare il figlio in un ruolo salvifico di sé, esposizione del bambino ad una inversione di ruoli, tendenza ad ingaggiare il figlio in una matrice relazionale di segno opposto, investimento sul piano dell’iper stimolazione e iper eccitatorietà, scarsa modulazione dell’emotività, etc., etc.

Siamo tutti consapevoli che la tutela giurisdizionale può legittimamente risultare “differenziata”, a tutela della posizione vulnerabile o svantaggiata, ma non sino al punto di violare i cardini del giusto processo di parti, avanti ad un giudice terzo ed imparziale. Il genitore può vedersi violare il diritto di ogni persona umana ad un giusto processo (art. 6 Convenzione salvaguardia diritti uomo e libertà fondamentali), seppur nel processo inerente la responsabilità genitoriale sul figlio? Nella migliore delle ipotesi si coglie un diffuso pregiudizio verso la figura del genitore, sol che si abbia riguardo alla possibilità di nomina di un curatore speciale del minore.

Insomma, ci stiamo avviando ad una condizione di mera soggezione ad attività squisitamente inquisitoria, peraltro intrisecamente versata alla più ampia discrezionalità e neanche rispondente a tecniche diagnostiche e di cura secondo scienze esatte universalmente riconosciute?

La straordinaria genericità o labilità delle espressioni di analisi clinica appena evocate, non abbisogna di altre parole! L’incertezza giuridica che ne deriva anche in termini di ragionevole prevedibilità delle forme di tutela dei figli e dei genitori, cioè di tutti e di ognuno, armonicamente, sta ingenerando una diffusa reazione di sfiducia nell’opera di Giustizia di settore, e lentamente si diffonde un senso di timore se non, anche qui, di terrore – neanche nuovo – per l’assunzione di potenziali responsabilità così impattanti sul piano esistenziale.

Questo contesto normativo e giurisprudenziale è allora il problema, o la giusta conseguenza del più ampio contesto generale, o addirittura della insorgenza stessa della singola controversia, da punire nei fatti come tale?

Percorrendo il sentiero maestro della responsabilità sociale, si ha motivo di credere che sia l’apparato normativo il problema principale. Difatti, è inaccettabile che si arrivi a travisare l’eventuale “incapacità” sancita nella norma guida di cui all’art. 30 della Costituzione nel sostenere gli oneri della genitorialità, con l’eventuale diversa questione qualitativa della “performance” nel ruolo rispetto ad un indefinito livello discrezionale ritenuto indispensabile non dalla legge, ma dal giudice, che allora dovrebbe essere obiettivamente prefigurato.

Si pensi ancora all’esempio di un padre ed una madre che in condizione sociale e personale media, si sacrificano diuturnamente per i propri figli, facendo tutto ciò che umanamente possono, ed in caso di fallimento del proprio rapporto di coppia, in presenza di una conflittualità assolutamente fisiologica, si vedono catapultati in un processo sì astruso, finendo per litigare con il curatore speciale dei propri figli, oggi anch’esso figura nominata quale attore delle dinamiche processuali in via massiva, nonostante l’ascolto personale, e che certo non conosce il figlio meglio dei due genitori e peraltro non raramente di dubbia professionalità specifica nel ruolo. Oppure a confrontarsi con il C.t.u., i Servizi Sociali, etc.

Ognuno comprende che questa insistenza nell’agevole “calpestio” del padre o della madre, o di entrambi, dovrebbe costituire infine un contesto illegittimo, e comunque un costo sociale che inevitabilmente funge da esempio concreto che certo non milita a favore dell’assunzione del ruolo genitoriale nelle future generazioni, facendo restare perplessi anche le migliori sensibilità professionali di settore.

Dall’ “onora il padre e la madre” stiamo forse passando al “calpesta il padre e la madre” che osano litigare come coniugi o conviventi in crisi?

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