Profughi siriani all’arrivo alla stazione ferroviaria di Malmö (G. Lavagna)
Corrono al sole i bambini di Husby, corrono ed è una meraviglia guardarli, ognuno una gradazione di pelle differente, ognuno una storia familiare diversa eppure così simile. Com’è lontana, da qui, la Stoccolma dei musei e di Gamla Stan, la città vecchia, quella dei mercatini vintage di Södermalm e quella commerciale di Norrmalm. Eppure, dalla stazione centrale, Husby arriva in fondo ad appena venti minuti di metropolitana. Ma è un mondo a parte, in una Svezia che cresce a buon ritmo (+2,3% nel 2018) anche grazie agli immigrati, la cui integrazione però fatica, diventando terreno di scontro politico per le elezioni europee del 26 maggio.
Tra questi parallelepipedi di cemento a sei piani, la scuola materna e quella elementare svolgono ancora una funzione essenziale. Almeno i quattro quinti degli alunni hanno origini straniere, riflesso di un quartiere in cui il 90% dei 10mila abitanti arriva da Paesi come Siria, Eritrea, Iraq, o è figlio di immigrati. «Questi bambini hanno talento, curiosità, intelligenza. Ma non hanno modelli di riferimento qui in Svezia – ammette un’insegnante, islamica e velata –. I loro fratelli maggiori, le loro madri e i padri non si sentono svedesi, semmai isolati dalla società». In giro è difficile vedere un negozio, un ristorante, un bar. Nelle parole dei residenti non c’è rabbia, ma tanta frustrazione. Per quello che Husby potrebbe essere e che invece non è.
Nello spiazzo antistante la metropolitana, solo una farmacia, un barbiere, un fioraio, un mini-market. Almeno di giorno la sensazione non è di pericolo, ma di un malcelato abbandono. Concepita negli anni ’70 al pari di altre “new town” per la classe operaia svedese, negli ultimi anni Husby ha letteralmente cambiato “colore”. Un terzo degli ultimi 2.500 bianchi che vivevano qui fino a 10 anni fa se n’è andato, scoraggiato dai tassi di microcriminalità in aumento. Oggi il 10% degli abitanti tra i 25 e i 55 anni è disoccupato, in confronto al 3,5% dell’intera Stoccolma. E chi ha un lavoro guadagna il 40% meno della media cittadina. Sei anni fa, la sensazione di «segregazione» che molti giovani del quartiere ammettono di avvertire si tradusse in una settimana di notti violente contro la polizia, scoppiate dopo l’uccisione di uno straniero per mano di un agente. La rivolta di Husby fece da detonatore per situazioni simili in tutta la Svezia, dalle periferie di Malmö a quelle di Örebro, facendo diventare scottante a livello politico il tema dell’integrazione e del multiculturalismo.
Non è un caso se la questione immigrazione, accanto a quella dell’ambiente, sia ancora prioritaria in vista delle Europee, come lo è stata nella campagna per le elezioni politiche dello scorso settembre. A soffiare sul fuoco è il partito dei Democratici svedesi (guidato da Jimmie Åkesson), le cui origini affondano nei movimenti neonazisti. A colpi di slogan semplicistici, e sfruttando un malcontento crescente soprattutto nell’elettorato più anziano e meno istruito, Åkesson ha portato la sua formazione xenofoba al suo massimo storico con il 17,6%, sottraendo voti tanto ai moderati quanto ai socialdemocratici. Questi ultimi, ai loro minimi storici, solo dopo quattro mesi di negoziati sono riusciti a formare a gennaio un governo di minoranza guidato da Stefan Löfven.
Negli ultimi tempi nessun Paese europeo ha accolto in proporzione alla sua popolazione più migranti e richiedenti asilo della Svezia: 600mila persone in 5 anni, 163mila nel solo 2015, un numero considerevole rispetto ai 10 milioni di abitanti. Eppure, i tempi dell’accoglienza stanno cedendo il passo a un nuovo irrigidimento. «Si sta diffondendo un atteggiamento di contrasto tra un “noi” e un “loro”, per questo bisogna stare molto attenti con le parole. I nostri politici, inclusi i socialdemocratici, hanno avanzato dubbi sul diritto di asilo o sulle ragioni per cui gli stranieri arrivano. È come una malattia da cui dobbiamo difenderci». Sara Edvardson Ehrnborg da tre anni è presidente di Farr, un’organizzazione che sostiene i migranti nelle procedure del diritto di asilo. «Credo che a far crescere il populismo sia la mancanza di comprensione tra la politica e la società civile. I politici dovrebbero ascoltare di più, ma c’entra anche la paura diffusa ad arte tramite i social network», spiega ad Avvenire.
Secondo l’attivista, «quando sottolinei che molti stranieri hanno un’occupazione, i nazionalisti ribattono che ci rubano il lavoro, se qualcuno dice che non lavorano allora “vivono sulle nostre spalle”. È qualcosa che ha a che fare con la retorica, con le parole, con un progetto a lungo termine della destra nazionalista. Abbiamo sì un’economia forte, ma anche persone che non si fidano dello Stato, dei politici, che pensano che sia tutto ingiusto. Sono gruppi facilmente manipolabili. Ma forse possiamo ancora fare qualcosa».
Nei sondaggi per le Europee, i Democratici svedesi – che dopo un sì iniziale e diversi rinvii hanno negato la loro disponibilità per un’intervista – sono ormai al secondo posto dietro ai socialdemocratici. Abbandonata la proposta di uscire dall’Ue, continuano a martellare sui «buchi» causati dagli stranieri al generoso welfare svedese. E dire che l’economia è in buona salute. E questo anche grazie agli immigrati, cruciali pure sul fronte della sfida demografica in un Paese che tende a invecchiare. Nel 2017 gli immigrati hanno guidato la crescita occupazionale sia nel settore industriale che in quello dei servizi sanitari e della cura degli anziani. Secondo l’ex ministro delle Finanze Magdalena Andersson, i nuovi arrivati riescono ora a trovare lavoro due volte più velocemente rispetto agli immigrati del decennio scorso. La disoccupazione, però, è ancora al 20% tra gli stranieri, contro il 6,8% del tasso nazionale. E certi settori ad alta remunerazione, come quello tecnologico, per gli stranieri restano quasi off-limits. È quella barriera che ad Husby e dintorni molti conoscono bene: «I datori di lavoro sono molto attenti a convocare per un colloquio una persona con un nome straniero», sottolinea Halima, 37 anni, residente del quartiere.
«L’integrazione è un enorme sforzo per la società, ma con le politiche giuste contiamo di raggiungere buoni risultati». John Zanchi, origini italiane, è il manager della campagna elettorale dei socialdemocratici al governo. Ci accoglie negli uffici del partito al 68 di Sveavägen, una delle arterie cuore di Stoccolma, e conferma che, pur opponendosi alla «deriva di estrema destra che attraversa la Svezia come tutta l’Europa», sull’immigrazione la formazione del premier Löfven pensa ad una stretta, dopo quella già avviata nel 2016 con limitazioni sul diritto d’asilo. «Non continueremo come gli ultimi anni, dovremo accogliere meno persone: non possiamo assumerci le responsabilità di altri Paesi che vogliono sussidi dall’Ue ma poi non fanno la loro parte», sottolinea. Zanchi insiste sulla distinzione tra diritto d’asilo e migranti economici: «Bisogna essere realisti, accogliere profughi ha un costo in termini di integrazione (scuole, case, formazione), non possiamo accettare tutti. Non siamo per una libera immigrazione senza confini, ma per una migrazione e un sistema di asilo regolato. Inoltre, non vogliamo cambiare il sistema svedese: chi arriva qui deve adeguarsi alle nostre norme, come quelle sulla parità di genere».
Anche a sinistra, insomma, l’irrigidimento è chiaro. Forse anche per inseguire i meno abbienti, che più si sentono «minacciati» dai nuovi arrivati in cerca di opportunità. «Sono persone che un tempo, anziché per i populisti, votavano per noi – spiega Zanchi –. È colpa nostra, non abbiamo parlato abbastanza con questi elettori. Credo sia questa la questione per il centrosinistra a livello europeo: se non siamo il partito dei lavoratori non saremo noi stessi. Non puoi non prenderti cura della tua base e dimenticare da dove arrivi, altrimenti perdi i tuoi elettori».
«Quando sono arrivato qui, 30 anni fa, sono stato accolto e ho potuto realizzarmi – confida Habib Messoussi, tassista di origini tunisine e ormai cittadino svedese da una vita –. Ma ho sempre avuto la sensazione che potessi arrivare solo fino a un certo punto, sia nei rapporti personali che in termini di lavoro». Accoglienza e rigidità, multiculturalismo e «segregazione» abitativa e occupazionale. Sono i due volti di un Paese che prende il meglio dall’immigrazione cercando però di tenerla a distanza di sicurezza dal suo cuore. Al Fotografiska di Stoccolma, forse il più importante museo fotografico del mondo con una spettacolare vista lì dove le acque del Baltico si insinuano ad accarezzare la capitale, espone in questi giorni i suoi incubi visuali Jesper Waldersten, artista svedese tra i più acclamati. «La Svezia è solo un inferno senza alcun fuoco», recita amara una delle sue immagini. Ingeneroso, sicuramente. Ma quanta sincerità.