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La sentenza è di quelle che non ammettono sconti: la moda sta attraversando un momento di difficoltà significativa in tutti i suoi segmenti, grandi e piccoli brand indistintamente. E non stupisce che ad essere sacrificati per primi sull’altare del risparmio siano gli investimenti nella transizione green del settore. In Italia e non solo.
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È da Venezia, candidata a diventare capitale mondiale della sostenibilità, che arriva l’allarme del mondo del fashion. Protagonisti del lusso, istituzioni, associazioni di settore, imprenditori si sono ritrovati nella terza edizione del Venice Sustainable Fashion Forum organizzata da Sistema Moda Italia (Smi), The European House Ambrosetti (TEHA) e Confindustria Veneto Est alla fine del mese scorso. Tutti concordi nel parlare di una filiera che, seppur fiore all’occhiello dell’Italia e con un valore addirittura superiore a quello dell’automotive (in termini di occupati, di reddito e di esportazione), attraversa un momento di crisi. Del resto è tutta l’industria della moda ad essere sotto scacco di fattori molti gravi come le guerre, in una congiuntura di diffusa perdita della capacità di acquisto, ma anche intrappolata in un modello di business che fatica a innovarsi davanti ad un mutamento dei consumi senza precedenti. Difficoltà che toccano tutti gli attori del comparto con la differenza, non di poco conto, che i “piccoli” non hanno gli stessi mezzi e la stessa possibilità dei “grandi” nell’escogitare nuove strade.
A rendere più serio il quadro poi è il ritardo che la moda europea registra nei confronti della conversione sostenibile. Una lentezza in tal senso si era vista già lo scorso anno, nell’edizione 2023 del Forum, ma adesso assume contorni preoccupanti rispetto agli obiettivi di decarbonizzazione stabiliti dall’Unione europea. Cosa fare allora? Serve “rigenerare”: il proposito che emerge dalla due giorni, con l’idea di (quasi) rivoluzionare l’intero sistema in ogni anello della sua catena. E per farlo, occorrono investimenti, meno burocrazia e un sistema di norme più snelle, necessarie per non tagliare fuori le piccole e medie imprese (Pmi). Senza ignorare che la moda è un’industria e come tale ha bisogno di bellezza e di volumi.
Ammonterebbe a otto anni il ritardo del fashion europeo nei confronti dei traguardi climatici del “Fit for 55”: l’accordo Ue che prevede la riduzione delle emissioni di gas serra del 55% entro il 2030. Nonostante negli ultimi anni l’industria della moda sia riuscita infatti a disaccoppiare la crescita economica dalla produzione di CO2 – cioè ad associare al valore economico il miglioramento dell’efficienza energetica – ai ritmi attuali sarà in grado di raggiungere i goals europei nel 2038.
A dirlo è il nuovo studio “Just Fashion Transition 2024”, l’osservatorio strategico di The European House Ambrosetti presentato a Venezia. Il report ha analizzato i bilanci di oltre 2.900 imprese italiane e le prestazioni di sostenibilità di più di 500 realtà tra retail globali, grandi gruppi europei e aziende della filiera nostrana. E ha condotto un’indagine sulle aspettative di mercato su un campione di 26.000 consumatori a livello globale.
Una ricerca approfondita e accurata quindi, da cui arriva l’incitamento ad investire 24,7 miliardi di euro entro il 2030 in politiche verdi per colmare il gap ecologico. «Di contro le aziende potrebbero anche scegliere di ridurre i volumi per contenere le emissioni – dice Carlo Cici, partner & head of Sustainability Practices di THEA –. Ma sarebbe una scelta miope, perché far calare la produzione costerebbe otto volte in più – in termini di ricavi – che investire in sostenibilità». Per non parlare del fatto che oggi, stando ai dati dell’Agenzia europea dell’ambiente, spendiamo 50 miliardi l’anno per affrontare l’impatto del cambiamento climatico. «Cifra che potrebbe salire a mille miliardi entro il 2100», conclude Cici.
Bisogna agire dunque, ma come? Innanzitutto, rimuovendo i fattori alla base dell’attuale lentezza della transizione green del fashion. La burocratizzazione in primis, che «stride con il processo di rigenerazione delle nostre industrie, che invece hanno bisogno di innovazione e di circolarità», avverte allarmato Sergio Tamborini, presidente di Sistema Moda Italia. Secondo cui ormai la sostenibilità è ridotta a «protocolli e bollini che garantiscono solo l’aderenza a determinate procedure».
L’Unione Europea inoltre continua a spingere il processo di eco-conversione principalmente con leggi e norme ancora confuse e la cui attuazione è possibile non prima di cinque anni. Per cui sulla carta la transizione vola, nei fatti resta ancorata al palo. Un esempio? Nonostante la Commissione Ue già promuova il recupero dei rifiuti e la rendicontazione dei prodotti invenduti, la “distruzione” continua ad essere un metodo comune di smaltimento. «Ogni anno – si legge nello studio – vengono distrutte tra 264.000 e 594.000 tonnellate di prodotti tessili, il 4-9 per cento del mercato».
C’è poi un fattore che rischia di scaricare il peso della crisi interamente sulle spalle delle piccole e medie imprese. Sono quelle aziende, il 98 per cento del tessuto produttivo italiano, che avrebbero maggiormente bisogno di aiuto ma che scontano la difficoltà degli investitori ad accedere ai fondi “sostenibili” sui mercati. A dirlo sono ancora una volta i numeri: oggi solo il 35 per cento degli investimenti dedicati alla transizione delle Pmi europee è sostenuto da finanziamenti esterni, e appena il 16 per cento di questi si qualifica come “effettivamente sostenibile”. Le cose non vanno meglio se si apre il capitolo della governance: tra le 100 più grandi aziende europee infatti, solo sette sono trasparenti sul salario minimo e 28 non pubblicano ancora un bilancio di sostenibilità.
In questo scorrere di dati negativi però ce n’è uno che fa sperare. Tra quelle analizzate infatti ci sono 34 realtà della moda che stanno riducendo le proprie emissioni ad una velocità doppia rispetto a quella richiesta dal “Fit for 55”. La prova dunque che “si può fare”. «Ne sono convinto – dice Andrea Rosso, ambasciatore della sostenibilità di Diesel – purché si educhi il consumatore da un lato e si renda attraente il capo sostenibile dall’altro». Una bella sfida che si scontra anche con la grande questione dei prezzi: la moda è un’industria e come tale ha bisogno di numeri. E i costi del green sono ancora oggettivamente poco accessibili per la maggior parte dei consumatori, soprattutto di fronte a colossi dell’ultra fast fashion – il modello di business che spinge a produrre e consumare velocemente a basso costo – come Shein. Che però, a sua volta, non può più reggere le accuse diffuse sulla scarsa qualità dei suoi materiali, sulla sua pesante impronta ambientale e sulle discusse politiche del personale. Sarà per questo che uno dei suoi più alti rappresentanti per la prima volta quest’anno si è affacciato al Forum di Venezia. Forse la riprova del bisogno urgente di trovare una sintesi per una transizione ecologica vera e alla portata di tutti.