martedì 10 dicembre 2024
Quella interessata empatia delle aziende per il nostro modo di pensare
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Alla voce “empatia”, il dizionario Treccani recita: «la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale». Stando alla definizione, è subito chiaro che non vi è connotazione positiva o negativa dell’empatia, eppure, nel sentire comune, siamo convinti che più empatia significhi più bontà e meno egoismo. E ciò genera parecchi equivoci.

Così, rapidamente: la parola Einfühlung (che successivamente viene tradotta con empatia, cioè sentire dentro, con calco greco) compare per la prima volta in ambito artistico, nell’Ottocento tedesco, come la capacità di vedere nella natura i simboli che essa ci presenta sotto forma di fenomeni estetici. È ciò che proviamo di fronte a un quadro che ci piace: vediamo qualcosa oltre il quadro, anzi attraverso il quadro vediamo e sentiamo un mondo aprirsi in noi, fatto di simboli, intuizioni, sentimenti. Non è tanto un messaggio trasmesso, ma un sentire profondo. È quello “sbam!” che avvertiamo dentro di noi davanti a un’opera d’arte, quando essa, come si dice in gergo, ci arriva.

Ancora in Germania, nei primi decenni del Novecento, con la fondamentale opera di Edith Stein, l’empatia si stabilizza come un tema ineliminabile per la filosofia e per la psicologia. Attenzione però, per la filosofa tedesca l’empatia è l’acquisizione emotiva (cioè dentro di me) della realtà di un altro soggetto, del suo dolore, della sua paura, della sua gioia. Dunque è un sentimento di relazione, non di identificazione: l’empatia ci dice che siamo in due, che siamo diversi e distinti, che ognuno ha le proprie emozioni e che possiamo entrare in relazione di reciprocità.

Ed è la stessa Germania, quella di Edith Stein, in cui si creerà un’empatia inaspettata e a tratti incredibile fra il popolo tedesco e Hitler, sul cui profilo psicologico si sono spesi fiumi di inchiostro, ma che necessariamente ha avuto la capacità di percepire e interiorizzare i sentimenti altrui per farne poi l’uso che sappiamo. È strano per noi oggi pensarlo, perché nel tempo il termine empatia è stato collocato decisamente nel quadrante positivo della vita. Ma, non dimentichiamolo, tecnicamente significa riconoscere ciò che sta succedendo a un’altra persona. Punto. Non partecipare del suo dolore o delle sue gioie, immedesimandosi.
Capire il comportamento altrui, del resto, è centrale per la nostra esistenza come esseri umani, nel bene e nel male. I neuroni specchio, che sono spesso associati, anche con una certa semplificazione, all’empatia, sono una struttura innata che ci permette di capire le azioni altrui, tramite la nostra conoscenza motoria; infatti comprendiamo i movimenti degli altri perché dentro di noi attiviamo gli stessi movimenti (i neuroni specchio sono motoneuroni), per cui la muscolatura facciale si è evoluta per poter comunicare emozioni e quei neuroni la sanno leggere. Naturalmente vi è anche un livello di comprensione degli altri che si basa sull’esperienza, sul contesto, sulle conoscenze pregresse: tutto questo è empatia.

Un termine fortunatissimo, che non poteva non essere annoverato fra le celeberrime soft skill, divenute indispensabili nella vita di chiunque non faccia l’eremita di mestiere, e poi finalmente entrate anche nel gergo aziendale, fra le parole-chiave, fra le più alte, che rendono il lavoro più sereno, più salutare, più collaborativo. Leggi: più produttivo, più performante, più redditizio. Nel marketing è addirittura fondamentale e i corsi o i tutorial online di relazione col cliente e di comunicazione empatica non si contano; ascolto attivo, comunicazione verbale e non verbale sono, di solito, i fondamenti di questi percorsi formativi. Non c’è dubbio che la retorica dell’ascolto – parola educata per dire che i nostri comportamenti sono pedinati passo passo e analizzati, quando non addirittura indirizzati, dagli algoritmi – sia un mantra degli ultimi anni, proprio perché i nostri atti sono oggi controllabili tecnologicamente, fuori e dentro le organizzazioni. La mappa di ciò che pensiamo e di come ci comportiamo è la cosa più interessante per le aziende, così che possano ridisegnare l’interfaccia di uno smartphone, ricalibrare un abbonamento a un servizio, posizionare i propri sportelli nei giusti quartieri della città, lanciare le offerte nei periodi e nei settori migliori e così via. Ma empatia suona meglio.

All’empatia è toccato questo doppio destino nel mondo del lavoro: parola eterea e multiuso per abbassare i livelli di conflittualità in ogni situazione (interna o esterna) e aumentare la produttività con il sorriso sulle labbra; strumento ipertecnologico-algoritmico di lettura e instradamento dei comportamenti dei consumatori o del sentiment dei dipendenti, veicolato spesso da survey, sondaggi, test di gradimento et similia.

Il sacro e il profano, l’ideale e il pragmatico. In fondo, empatia significa sentire dentro, in relazione con l’altro, quasi un con-sentire. Domandiamoci che cosa ci sia davvero con-sentito (liberamente) in questo mondo empaticamente sotto sorveglianza.

Filosofia in azienda / 2

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