Una scelta obbligata in chiave ecologica da una parte. E una tecnologia costosa, ricca di pregi e di controindicazioni dall’altra. Alle due facce ampiamente discusse della transizione della mobilità verso l’elettrico, va aggiunta quella che la connota come un grande business a livello economico. Nei prossimi anni la domanda di auto a batteria è destinata a una rapida crescita, anche per effetto del bando della vendita di nuove vetture a motore tradizionale deciso in Europa a partire dal 2035. Considerando che oggi le stazioni di ricarica ad alta velocità richiedono investimenti da 30 a 150mila euro per unità, a seconda della configurazione, è stato calcolato un volume d’affari che dovrebbe generare profitti fino a 13,5 miliardi di euro entro il 2030. «In questo contesto – sottolinea Alessandro Cadei, responsabile della practice Energy & utilities EMEA di Bain & Company, azienda di consulenza globale – l’infrastruttura di ricarica e i servizi cruciali per l’adozione dei veicoli elettrici rappresentano un’opportunità commerciale enorme e strategica. Entro i prossimi otto anni, gli utili legati alla ricarica dei veicoli elettrici in Europa, Stati Uniti e Cina cresceranno in modo significativo, con i servizi di smart energy a guidare la crescita e a rappresentare circa un terzo del totale dei profitti. Si tratta però di un settore complesso: le caratteristiche del mercato variano in modo significativo a seconda del Paese, del luogo di ricarica, della posizione dell’azienda nella catena del valore complessiva e del modello di business».
Tuttavia restano molti gli interrogativi da sciogliere, in particolare nel campo delle batterie. A iniziare dall’attuale indisponibilità di materie prime necessarie per sostenere le richieste del settore. Stando all’ultimo studio della società di ricerche Benchmark Minerals, per soddisfare la domanda di batterie per veicoli alla spina e per lo stoccaggio energetico, serviranno oltre 300 nuovi siti minerari. In particolare, entro il 2035 ci sarà la necessità di avviare almeno 384 complessi di estrazione per la grafite, il litio, il nickel e il cobalto. Il numero, però, scende a 336 tenendo conto della possibilità di riciclaggio dei vari materiali. Trovare nuove miniere, e sottrarre altri minerali al Pianeta, non pare certo una prospettiva sostenibile e va a creare un altro cortocircuito nella logica ecologica della mobilità elettrica. Lascia perplessi in questo contesto la notizia rilanciata nei giorni scorsi dal New York Times, secondo il quale i fondali dell’Oceano Pacifico potrebbero diventare presto il campo minerario più grande del mondo. Sono in corso infatti sondaggi a 1.500 miglia a Sud-Ovest di San Diego in California, effettuati dalla società estrattiva canadese Metals Company, alla ricerca di minerali necessari alla fabbricazione di batterie per auto elettriche.
L’azienda, riferisce il Nyt, si è assicurata l’esclusiva dello sfruttamento di questo remoto settore dell’oceano, e punta a estrarre dai fondali a circa 4.000 metri di profondità tonnellate di rocce ricche di cobalto, rame e nickel, in quantità tale da poter fornire il materiale necessario ad alimentare 280 milioni di vetture elettriche, un numero pari a quello dell’intero parco automobilistico attualmente circolante negli Stati Uniti. La Metals Company stima profitti per 31 miliardi di dollari nell’arco dei 25 anni della durata della concessione. Nel frattempo i dati evidenziano la sfida delle materie prime che le Case automobilistiche dovranno affrontare per soddisfare la domanda di batterie, destinata a crescere di sei volte entro il 2032. Le materie fondamentali per la produzione delle celle che servono per i veicoli elettrici intanto hanno visto schizzare in alto i loro prezzi. Rispetto a un anno fa, nel secondo trimestre del 2022 il costo del litio è cresciuto del 640%, ma la spirale degli aumenti ha coinvolto anche il titanio (+169%) e il nichel (+68%). Secondo Bertram Brossardt, Ceo di VBW, l’associazione delle imprese bavaresi, «in particolare il litio nel 2023 dovrebbe addirittura decuplicare il suo prezzo rispetto all’inizio del 2021». L’associazione ha chiesto pertanto alle aziende tedesche di ridurre la dipendenza da fornitori singoli, di utilizzare le materie prime in modo più efficiente e di aumentare la quota di materiali recuperati dal riciclo.
Questa situazione complessa e movimenta dipende comunque da un mercato globale dove le vetture elettriche siano acquistate realmente, e non solo in teoria. I dati disponibili più aggiornati, relativi ad agosto 2022, segnalano che a fronte di una crescita di immatricolazioni a livello europeo, l’Italia ha invece innestato la retromarcia. I veicoli completamente elettrici (BEV), così come quelli PHEV (ibridi elettrici con la spina), venduti nel mese sono in calo rispetto ad agosto 2021 rispettivamente del 29,7% e del 17,1%. E questo nonostante un mercato totale che recupera il 10%. Rimane comunque il crollo di immatricolato da gennaio ad oggi rispetto al 2021: -20,5% per le BEV. Solo il 32% delle Bev+Phev nel nostro Paese inoltre è acquistato da privati. Se per le Plug-in hybrid la flessione va ascritta principalmente alla mancanza di prodotto in consegna, per le auto 100% a corrente è la domanda che manca, nonostante gli incentivi all’acquisto. Finora il mercato ha assorbito 30.658 BEV, 8.000 in meno dello scorso anno, con una quota che non cresce dallo stentato 3,5% sul totale. L’Italia rimane sola tra i Paesi europei di riferimento (Belgio, Francia, Germania, Olanda, Spagna e UK) ad avere una percentuale di mercato dei veicoli elettrici in calo nei primi 7 mesi (-19,7%), mentre negli altri la quota sale dal +13% della Germania (che conta ormai circa 200.000 BEV immatricolate da inizio anno) al +81% del Belgio. Secondo Motus-E, l’associazione che rappresenta gli interessi della mobilità elettrica:
«In Italia gli incentivi sono ripartiti in ritardo. Mentre qui ancora si discute della bontà dell’elettrificazione, gli altri Paesi europei hanno ben chiara quale direzione seguire con adeguate politiche di supporto ». Motus-e invece non condivide la teoria secondo la quale la colpa delle basse immatricolazioni sarebbe della rete di ricarica pubblica inadeguata. L’Italia infatti, riporta sul suo organo ufficiale, «ha più punti di ricarica per veicolo circolante elettrico del Regno Unito, della Francia, della Germania e della Norvegia. E ha un livello di potenza media degli stessi più alto della media europea e di Germania, Francia, Svezia e Spagna». È innegabile comunque che l’infrastruttura nel nostro Paese sia allo stadio embrionale, che le colonnine non siano posizionate in maniera omogenea sul territorio, e che un’alta percentuale delle stesse non funzioni. In città come Milano inoltre circa il 40% delle aree di ricarica sono occupate abusivamente da auto termiche (dato 'Quattroruote'). Oltre alla 'mentalità elettrica', comunque, ciò che manca è soprattutto la disponibilità economica per avvicinarsi al costosissimo mercato delle auto a batteria: questa alla fine è l’unica certezza.