mercoledì 9 aprile 2025
Un nuovo impianto della società Igers, alle porte di Novara, sarà il primo in Europa a poter trattare qualsiasi tipologia di scarto tessile, oltre a gestire l’intera filiera del riciclo
Se i rifiuti tessili diventano smart: «Non sprecheremo neanche una zip»
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Venticinque milioni di tonnellate l’anno. A tanto ammontano i rifiuti tessili che il nuovo impianto realizzato dalla società Igers, alle porte di Novara, sarà in grado di gestire ogni anno. Entrerà in funzione nel 2026 con un plus che lo rende unico in Europa: è infatti il primo impianto integrato in grado di trattare qualsiasi tipologia di scarto tessile. E di farlo nello stesso sito. Dalle passerelle i vestiti (che siano di lana, cotone o sintetici, o addirittura misti) sfileranno su nastri trasportatori e – tramite un processo accurato di sanificazione, analisi e recupero – torneranno nel ciclo produttivo, diventando così una risorsa. Un percorso circolare a cui uno dei settori più inquinanti al mondo non può più sottrarsi. Il nostro Paese su tutti, essendosi posto come pioniere nella svolta green della moda quando nel 2022 ha recepito, con tre anni di anticipo rispetto al resto d’Europa, la direttiva che rende obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili. Che però è ancora al palo, a causa del mancato coinvolgimento dei brand che devono essere incentivati a progettare prodotti più sostenibili e a contribuire finanziariamente al loro riciclo. Senza questo passaggio, l’onere grava interamente sui Comuni, che da soli non hanno risorse e mezzi adeguati. Mentre paradossalmente «esistono già aziende disponibili a partecipare e che aspettano solo il lasciapassare legislativo», spiega Michele Priori, direttore generale di Cobat Tessile, consorzio che racchiude 22 distretti.

I numeri.

Secondo gli ultimi dati dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, in Italia i rifiuti tessili rappresentano il 4,3% di quelli urbani e di questi solo l’1% viene avviato al riciclo. Non solo, nel 2022 (anno in cui è entrato in vigore l’obbligo Ue) abbiamo raccolto in modo differenziato solo due chili e mezzo di scarti tessili per abitante, a fronte di una produzione che a livello europeo arriverà almeno a undici chili pro-capite. Ma dove si buttano oggi abiti, pantaloni e scarpe? Attualmente le amministrazioni si avvalgono dei riconoscibili “cassonetti gialli” posti ai bordi delle strade o nelle isole ecologiche. E il cui contenuto è destinato principalmente alla vendita dell’usato o alla beneficenza. Il resto finisce nell’indifferenziata prima e in discarica dopo, quando non viene esportato nei Paesi in via di sviluppo. In realtà ci sono dei sistemi di raccolta e alcuni impianti sul territorio ma appartengono per lo più alle industrie che lavorano un materiale specifico (per esempio il cotone o la lana) o una frazione del prodotto (come i bottoni). Oppure ancora a case di moda che li destinano ai propri clienti. Non esiste cioè una rete virtuosa che mette insieme cittadini, Comuni e produttori in nome di una circolarità vera e sistemica. Il motivo? Lo spiega Priori: « Manca – dice – un anello fondamentale della catena, ovvero l’approvazione della cosiddetta responsabilità estesa del produttore ». Nota anche come “EPR”.

La normativa.

L’Europa infatti ha immaginato una conversione sostenibile del tessile che passi da diversi step che vanno dalla fabbricazione al post consumo. Ogni prodotto insomma deve «nascere, essere consumato e arrivare a fine vita» più tardi possibile e rispettando l’ambiente. Come? Con un design durevole, per dirne una. Con la scelta di materiali riciclati e riciclabili. E di fibre che vengono recuperate e re-immesse sul mercato. Affinché ciò avvenga, l’Unione Europea ha previsto che i produttori si prendano la “responsabilità” di come lavorano e di come gestiscono i loro rifiuti. E lo ha sancito in una legge che «sta per concludere finalmente il suo iter», racconta Mauro Chezzi, referente associativo di Retex. green, consorzio di riferimento della filiera Moda. Che ha partecipato – sin dagli albori – anche al tavolo di confronto avviato dal ministero dell’Ambiente per l’approvazione parallela di una direttiva sull’EPR italiana – sbandierata da tempo – e forse anche quella in dirittura di arrivo: «Ci auguriamo entro l’estate». Anche perché il mondo delle imprese è pronto e aspetta solo di partire. «Certo sarà un avvio graduale, ma l’importante è cominciare e settarsi man mano», conclude Chezzi.

L’impianto smart di Igers.

La sfida è possibile ma ardua, a causa soprattutto di un eccesso di presenza di fibre sintetiche sulle passerelle: come l’elastan. Ecco perché l’avvio di un impianto come quello di Igers, società partecipata del gruppo Haiki+, diventa ancora più dirompente. Gestirà in una sola struttura l’intera filiera del riciclo tramite un sistema del tutto automatizzato in grado di riconoscere ogni tipo di scarto tessile: fibra, colore e persino grammatura. Ma anche le frazioni più difficili da riciclare come toppe, elastici, zip. Aspetto non di poco conto se consideriamo che la selezione è cruciale per separare i capi riutilizzabili e rimuovere componenti non tessili. I materiali vengono poi recuperati e trasformati o in fibre naturali, da utilizzare per nuovi capi di abbigliamento, o in fibre sintetiche per imbottiture. «Non abbiamo fatto altro che applicare la direttiva sulla raccolta differenziata del tessile e ascoltare le esigenze dei diversi brand della moda, nella convinzione di dover fare la nostra parte», racconta l’ad Gian Luca Miceli, che paventa la possibilità di realizzare altri quattro impianti simili in Italia. Sostenibili a 360 gradi come questo: che è alimentato da energia solare e lavora a secco per evitare additivi o liquidi speciali. Come in ogni economia circolare che si rispetti.

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