«Le farò sapere». Ha destato sorpresa il cambio di paradigma nei colloqui di lavoro, per cui ora sono i candidati a pronunciare quella frase e non le aziende. Il dato è emerso da un’indagine pubblicata di recente da Gidp, Gruppo Intersettoriale dei direttori del personale, cioè l’associazione che riunisce i direttori delle risorse umane, raccontata con sorpresa dai media italiani. Sorpresa, ma anche, per alcuni, soddisfazione, perché significa l’emergere di una nuova e diversa consapevolezza del ruolo del lavoro nella società contemporanea italiana. Occorre specificare l’estensione geografica del ragionamento, che forse potrebbe essere ampliata all’Europa e all’Occidente ricco, ma non certo a tutto il mondo, dove il concetto di lavoro ha troppe differenti valenze esistenziali e pratiche.
In ogni caso, in Italia, i giovani al colloquio di lavoro sono preoccupati della mansione che viene loro proposta, del compenso, della possibilità di lavorare da casa, di avere orari flessibili e, non da ultimo, sono preoccupati anche delle attività sociali dell’impresa e delle pratiche adottate per il rispetto ambientale. Altre indagini segnalano che anche chi cambia lavoro è disposto a rifiutare le offerte se le aspettative non sono soddisfatte pienamente. Insomma, sono lontani i tempi del “ringrazia il cielo che hai un lavoro”.
Evidentemente il lavoro non rappresenta più la sola via per realizzarsi e non siamo disposti a tutto pur di ottenerne uno. Il denaro conta, ma contano più la qualità del proprio tempo, fuori, e il senso di ciò che si fa al lavoro, dentro, per chi lo si fa, come e perché.
È curioso come il primo aspetto, il rapporto con il tempo libero (e già chiamarlo “libero” significa declassarlo rispetto a quello occupato in modo fruttifero con il lavoro), passi sotto l’etichetta internazionale di “work-life balance” e non “life-work balance”: cioè prima il lavoro e poi il tempo per sé. Inoltre, lavoro contrapposto a vita, non male, come se uno escludesse l’altra. È una formula figlia di un lungo percorso culminato in un’epoca di grande sviluppo, crescita, potenziamento, in una parola, di mercato allo stato puro, dominus invictus che ha preso la leadership globale e ha portato mezzo mondo a stare meglio, in termini economici beninteso, costruendo una narrazione di sé come leva del progresso spirituale oltre che materiale dell’intera umanità.
Ma i ventenni di oggi si chiedono se quel mercato basti, da solo, a garantire il mondo che ogni giovane sogna, e che i più anziani non sanno più sognare: un mondo giusto. Non è una rivoluzione, quella che mettono in atto mentre dicono «le farò sapere», ma una evoluzione, sia del lavoro sia del tempo libero. Qual è il senso dell’uno e dell’altro? Come si possono trasformare in un’ottica individuale e collettiva integrata, che possa portare benefici a tutto il pianeta, non solo a pochi, e costruire una società più equa?
Altrettanto curioso è pensare a come nel mondo latino il tempo libero, per dedicarsi ai propri interessi, fosse definito otium, mentre il lavoro, inteso specificamente quello politico di servizio alla collettività, fosse chiamato negotium, cioè il momento nec-otium, senza tempo libero, potremmo dire. Esattamente il contrario del work-life balance.
Per quanto riguarda poi la domanda di senso espressa implicitamente dai giovani nell’indagine Gidp, quel “che ci faccio qui?”, nel momento in cui si varca la soglia dell’ufficio o della fabbrica, la riflessione utile, forse, non è tanto sulla percentuale di smart working o sugli incentivi che si concedono, quanto se il lavoro sia uno dei luoghi in cui la nostra vita e le nostre potenzialità possano realmente liberarsi, applicarsi, svilupparsi e fiorire, magari facendo fiorire anche quelle altrui. È possibile concordare sul fatto che la pienezza della persona è, in una società complessa e basata comunque sul lavoro, un equilibrio coerente, comprensibile, accettabile e vantaggioso per l’individuo e per la collettività, fra otium e negotium? Non pensiamo solo ai giovani creativi e alla retorica delle start up dove ognuno può realizzare i propri sogni, ma a coloro, per esempio, che lavorano per turni, o fanno attività usuranti, o sono obbligati a un impiego odiato, che tuttavia è l’unica fonte di sostentamento.
Ecco, pensando a tutti, può il lavoro, con le regole di oggi, essere un elemento di miglioramento individuale e collettivo non solo economico, ma di salute fisica e mentale, crescita individuale, spirituale, culturale, sociale? E se sì, in quale percentuale della nostra vita? E ancora: è possibile praticare una via per cui ciò che una persona costruisce di sé nel tempo libero diventi importante anche per l’azienda? Sono molte domande, forse troppe per un articolo di giornale, ma la più difficile è l’ultima, che sorge davanti a questo apparente distacco dai valori del lavoro, che credevamo radicati in questa parte di mondo e che invece diventano il perno per un cambio radicale di visione. La domanda è: a chi tocca la prima mossa?