martedì 12 aprile 2011
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È preoccupato, Stefano Zamagni, il presidente dell’Agenzia per le Onlus – padre della legge fiscale sul non profit e tra i maggiori esperti internazionali di economia civile – preoccupato per il rischio che, senza interventi, le nuove regole di Basilea 3 possano comportare una drastica riduzione dei finanziamenti alle imprese sociali. Ma allo stesso tempo fiducioso, perché, come spiega in questa intervista, le difficoltà sono spesso all’origine delle grandi trasformazioni. E la novità alla quale guarda Zamagni è la nascita di una Borsa del sociale, capace di integrare strutturalmente le sempre più ristrette fonti di finanziamento degli enti non profit.Quanto è concreto il rischio che le nuove regole portino a una stretta creditizia nei confronti del profit?Le nuove norme sono sacrosante e rappresentano la naturale conseguenza della crisi finanziaria. L’esigenza, ineludibile, è quella di regolare l’attività speculativa nei mercati finanziari, che nell’ultimo quarto di secolo ha raggiunto livelli mai visti prima. Il problema, come spesso accade, sono i danni collaterali.Dove sta l’errore?Nell’assunto alla base di una certa visione dell’economia, secondo cui ogni forma di attività finanziaria deve servire necessariamente fini speculativi. Mentre non è così: basti pensare a come operano le Banche di credito cooperativo o ricordare che gli enti non profit non si finanziano per alimentare la spirale inflazionistica, quanto per sostenere progetti a favore della società civile.Il credito al non profit supera i 10 miliardi di euro l’anno. Come intervenire per non penalizzare un settore così importante per il ruolo sociale e assistenziale che ricopre?Spero e auspico che la Banca d’Italia intervenga con senso di responsabilità e ragionevolezza. Il rischio è che si verifichi una stretta creditizia importante verso soggetti che stanno già facendo i conti con una significativa riduzione delle risorse degli enti pubblici, da sempre principale canale di finanziamento. E si tratta di realtà sulle cui spalle grava buona parte del nostro sistema di welfare. Il fatto è che, mentre a parole si riconosce l’importanza del non profit, allo stesso tempo si opera per restringere le fonti di finanziamento a questo universo vitale e importante, condannandolo all’eutanasia. In palese contrasto con quanto l’Europa va sostenendo.A che cosa si riferisce in particolare?Lo scorso ottobre la Comissione Ue, recependo una risoluzione del Parlamento europeo del 19 febbraio 2009 sull’economia sociale, ha emanato una lista di proposte per sostenere l’integrazione e lo sviluppo, tra le quali vi è l’indicazione di agevolare l’accesso al credito ai soggetti del Terzo settore. Dobbiamo alzare il livello di attenzione e del dibattito su questi argomenti, perché le realtà non profit invece rischiano di essere penalizzate, non potendo contare su potenti lobby che ne curano gli interessi. E, d’altro canto, è strano che la voce di chi opera in questo ambito dell’economia, per nulla residuale, non sia rappresentato ai tavoli delle decisioni.Nel rapporto con le banche, spesso gli enti non profit lamentano un trattamento non adeguato alla loro specificità, che tra l’altro è anche quella di avere tassi di insolvenza inferiori rispetto alle imprese tradizionali. È un problema delle banche o c’è anche un deficit di managerialità nel sociale?Negli ultimi anni le banche si sono avvicinate al Terzo settore, rompendo quell’uniformità alla quale avevano ceduto. Oltre al Credito cooperativo e a Banca Etica, esperienze come Banca Prossima di Intesa Sanpaolo, e quella di Unicredit, dicono che le banche commerciali hanno compreso l’importanza delle imprese sociali. Quanto ai manager non profit, è possibile che in qualche caso la dipendenza dai fondi pubblici abbia contribuito a soffocare le energie migliori. Ma ci vuole un attimo a risvegliarle, basta trovare l’incentivo giusto. Che cosa auspica?La nascita di una Borsa del sociale, come sostengo da anni, può dare un contributo determinante. Il progetto è pronto, ora servono quei soggetti che, credendo nell’esperienza, diano vita alla società per l’avvio del mercato. In Gran Bretagna e Stati Uniti esperienze simili stanno già partendo. Ma io credo che, se non tra un anno, entro due o tre l’Italia ce la farà. Anche a causa delle nuove condizioni di mercato.
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