La grande discarica alla periferia di Accra, capitale del Ghana - Fotogramma
Quella che fino al 2023 era la principale economia del continente africano, la Nigeria, spenderà nel 2025 il 45% di tutte le sue entrate solo per ripagare il suo servizio del debito. Ad un Paese che galleggia sul petrolio, patria di 220 milioni di persone, quasi metà delle quali sotto la linea di povertà, gli interessi sul debito costeranno quest’anno 15,81 trilioni di naire, la valuta locale, oltre il doppio rispetto a quanto il governo locale ha messo a budget per due settori vitali per lo sviluppo come istruzione e salute. E anche aggiungendo a questi ultimi altri due comparti, come la sicurezza e le infrastrutture, il debito resta la principale voce di spesa di un gigante con i piedi di argilla, che deve pur far fronte a un’inflazione al 34%. Il totale di interessi netti dei Paesi in via di sviluppo ha toccato gli 847 miliardi di dollari nel 2023, con un aumento del 26% rispetto al 2021. Per questi Paesi, la scelta, ogni giorno, è se fornire servizi di base ai propri cittadini o ripagare i debiti: non hanno risorse sufficienti per tutto. Lo scorso settembre, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, proprio la Nigeria – che ha un debito totale di 91 miliardi di dollari – aveva lamentato l’impatto che il servizio del debito sta avendo sul Sud globale, i cui Paesi «non possono fare alcun significativo progresso economico senza speciali concessioni e una revisione del loro attuale fardello del debito».
Dopo aver contratto prestiti onerosi durante la pandemia, triplicando deficit che non sono stati più in grado di risanare, gran parte dei Paesi del Sud del mondo continua peraltro tuttora a indebitarsi a tassi insostenibili. Mancano ai loro governi alternative di finanziamento, a fronte di un potere negoziale pressoché inesistente, mentre strumenti come gli eurobond, cioè obbligazioni in valuta forte, lasciano i Paesi fragili in balìa dei tassi di cambio, soprattutto in fasi di superdollaro. In un tempo in cui diminuisce l’ammontare degli aiuti internazionali – ormai attestati al livello minimo degli ultimi due decenni – e in cui i prestiti multilaterali scontano l’impopolarità provocata dalle restrittive condizioni di austerità che si portano dietro, la speculazione, se non il mercato, fa il suo gioco. Un gioco che spesso fa rima solo con profitto.
Sono 21 i Paesi africani ad aver sottoscritto eurobond per un totale di 155 miliardi di dollari. Ancora nelle ultime settimane, il Sudafrica ne ha emessi due per 3,5 miliardi di dollari, con tassi di interesse tra il 7 e l’8%; anche la Nigeria ne ha emessi due a dicembre, con tassi che sfondano il 10%. Si tratta, secondo molti osservatori, di tassi almeno doppi rispetto a quanto sarebbe sostenibile dai due Paesi e che vengono stabiliti anche sulla base delle aspettative di domanda. Non sorprende che obbligazioni con tassi di interesse così alti attirino un numero di investitori anche cinque o sei volte superiore all’offerta disponibile. L’alta domanda, però, nel caso dei Paesi africani continua a non far calare i tassi per le successive collocazioni. L’affare, insomma, lo fanno sempre gli investitori. E per molti analisti la ragione è una: lo squilibrio di potere tra i governi locali e coloro che gestiscono l’effettiva emissione dei bond, grandi banche di investimento e istituti finanziari che puntano al massimo profitto e alla riduzione del rischio di un potenziale collocamento andato a vuoto. Per i governi locali, la mancanza di alternative, come detto, fa il resto. Se dunque è vitale la remissione anche solo parziale dei debiti attuali, ancora più cruciale diventa una revisione dei meccanismi di finanziamento ai Paesi fragili e di una più ampia disponibilità di prestiti agevolati a condizioni concessionali come strumento di cooperazione internazionale allo sviluppo.