Lavoratori sempre più attenti alla conciliazione vita-lavoro - Archivio
Cambia il lavoro e cambiano anche le modalità di recarsi o meno in ufficio. La pandemia ha accelerato queste trasformazioni. E ha riacceso il dibattito sul ripristino o la proroga del lavoro agile (per ora fino a giugno solo per lavoratori fragili e con figli sotto i 14 anni). Oltre all'idea di introdurre anche in Italia la settimana corta, che sta prendendo piede in diversi Paesi: da quelli lontani come Nuova Zelanda o Islanda, ai nostri vicini Belgio, Germania, Spagna e Regno Unito, dove è stato stilato un bilancio positivo dell’esperimento di orario ridotto e concentrato. Da noi Intesa San Paolo ha introdotto da gennaio la possibilità per alcuni dipendenti di lavorare nove ore per quattro giorni a parità di stipendio, i metalmeccanici della Fim-Cisl insistono per aprire confronti nelle imprese e il segretario generale Maurizio Landini vuole porre il tema al centro del prossimo congresso nazionale della Cgil.
Il lavoro da remoto non decolla più
Nel 2019 solo il 14,6% degli occupati in Europa (Eu-27) lavorava abitualmente da casa e lo scenario era piuttosto eterogeneo, con i Paesi Bassi in cui tale modalità raggiungeva il 37,2%. Con il dilagare del Covid, alcuni Paesi che già nel 2019 mostravano valori superiori alla media Ue hanno intrapreso un trend di crescita nei due anni successivi (Irlanda, Lussemburgo, Belgio, Finlandia, Danimarca, Francia, Estonia, Malta e Portogallo). Secondo i dati 2022 dell'Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia, il ricorso al lavoro agile è passato in due anni dal 58% al 91% nelle grandi aziende e dal 12% al 48% nelle pmi, nonostante una lieve contrazione rispetto al 2021. Nel 2019 avevamo percentuali al di sotto della media europea, con l’emergenza sanitaria abbiamo raddoppiato tali valori, ma nel 2021 il tasso di crescita del ricorso al lavoro agile è decisamente rallentato (4,8% nel 2019, 13,7% nel 2020, 14,9% nel 2021 secondo i dati Eu-Lfs, con valori ancora più bassi tra i dipendenti: dall’1,7% del 2019 al 12,1 del 2020 e al 13,8 del 2021). Nel nostro Paese è appena il 14,9% degli occupati che svolge parte dell’attività da remoto, ma potrebbe essere quasi il 40%, considerando la potenziale telelavorabilità. Pertanto, la quota che effettivamente si traduce in lavoro a distanza è minoritaria, nonostante il boom che si è avuto nel 2020, quando si è passati dal 4,8% dell’anno precedente al 13,7%. La quota del lavoro da remoto varia dal 25% per le professioni intellettuali o esecutive al 2% di quelle non qualificate. Dietro questa distribuzione vi è sicuramente il differente grado di fattibilità del lavoro da remoto nelle diverse professioni, ma anche la differente capacità manageriale di adottare nuovi modelli di organizzazione del lavoro facendo uso delle nuove tecnologie digitali. Un primo altolà viene dai datori di lavoro nel settore privato extra-agricolo: per le imprese fino a cinque dipendenti l’84% dei lavoratori svolge mansioni che non possono essere eseguite a distanza, ma al crescere della dimensione dell’azienda si riduce tale quota (il 56,4% fra quelle medie, 50-249 addetti e 34,2% fra le realtà con oltre 250 addetti). Nel 2021 solo il 13,3% delle imprese intervistate da Inapp ha utilizzato tale modalità. A svolgere un lavoro telelavorabile sono soprattutto i laureati, i dipendenti delle imprese di grandi dimensioni, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. Incidenze leggermente superiori alla media delle professioni telelavorabili si rilevano tra le donne, i residenti nel Nord Ovest e nel Centro e le persone con diploma. La percezione di alcuni vantaggi e svantaggi del telelavoro fa emergere inoltre una differenza di genere con gli uomini, che apprezzano in particolare la maggior autonomia, e le donne, che mostrano invece maggiore preoccupazione riguardo alle prospettive di carriera (50,9%), ai diritti e alle tutele sindacali (52,8%) e al maggiore controllo da parte del datore di lavoro (53,3%). Eppure l’emergenza sanitaria da Covid-19 vissuta negli ultimi due anni ha accelerato e reso possibile il processo di digitalizzazione e di riorganizzazione del lavoro, attraverso l’adozione dello smartworking e del modello agile per aziende e pubblica amministrazione. Stefano Zamagni, ordinario di Economia Politica all'Università di Bologna, ha spiegato che il «lavoro agile non è altro che il superamento del metodo taylorista, ossia di una metodologia di lavoro, basata sul principio gerarchico, secondo il quale chi ha la proprietà dei mezzi di produzione dell’azienda assume il ruolo di decisore assoluto e indiscutibile. Oggi un’azienda, per continuare ad essere competitiva, non può più strutturare la propria organizzazione attorno a un principio gerarchico e di controllo, ma deve adottare il modello olocratico, incentrato sulla fiducia, in cui tutti i dipendenti sono chiamati a contribuire in ottica di co-progettazione e co-programmazione». Questa teoria è fortemente supportata da Hrcoffee (https://www.hrcoffee.it), specializzata nello sviluppo di software per il People Management e People Analytics, la quale ha ideato un modello di gestione del personale che consente di semplificare i processi di condivisione e co-progettazione e pone al centro le persone, attribuendo loro pari importanza, a prescindere dal ruolo che svolgono all’interno dell’organizzazione. La condivisione e il confronto, che si generano dall’interazione tra tutti coloro che vivono l’azienda, contribuiscono a sviluppare consapevolezza a livello sociale e culturale, cooperazione e co-progettazione, che possono a loro volta dare vita ad importanti decisioni di business, orientate verso il benessere dei dipendenti ed una loro maggiore produttività.
Più della metà degli italiani favorevole alla settimana corta
Sebbene in Italia la settimana corta sia un benefit che riguarda solo il 5,9% delle persone, stanno nascendo progetti pilota e proposte dettati anche dalla necessità di ridurre i costi energetici, oltre che dalla richiesta delle persone di un maggiore equilibrio tra vita privata e lavorativa. Ad analizzare questa tendenza è stato l’Adp Research Institute all’interno del proprio studio People at Work 2022: A Global Workforce View. L’indagine si è svolta su circa 33mila lavoratori in 17 Paesi, di cui circa 2mila in Italia. Dallo studio risulta che il 56% degli italiani intervistati sarebbe disposto a passare alla settimana lavorativa da quattro giorni, portando a dieci ore l’impegno di lavoro giornaliero, così da ottenere un maggiore equilibrio tra vita privata e professionale. Al contempo, il 35% sarebbe disposto a ridursi lo stipendio pur di ottenere un maggiore equilibrio tra lavoro e vita privata. Mentre il 26% degli intervistati accetterebbe una riduzione media del 9,9% dello stipendio se questa garantisse loro la flessibilità di decidere come strutturare le ore lavorative, anche senza una riduzione dell'orario di lavoro settimanale. «La settimana lavorativa di quattro giorni è tra gli argomenti di discussione più interessanti del momento: il dibattito è attivo a livello mondiale, dove sono diversi i Paesi che si stanno muovendo per introdurla, ma anche in Italia ci sono varie proposte che stanno nascendo, spinte dall’iniziativa del settore privato - ha affermato Marcela Uribe, General Manager Adp Southern Europe -. L’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa è una delle questioni che più sta influenzando il mondo del lavoro in questi anni: la pandemia ha fatto sorgere tra i lavoratori nuove esigenze, che le imprese devono prendere in considerazione e integrare nella propria strategia di reclutamento e gestione dei dipendenti, se non vogliono essere penalizzate in termini di attrattività verso i nuovi talenti e risorse». Non stupisce, infatti, che tra i fattori principali che contribuiscono maggiormente nella scelta di un posto di lavoro, il 48% degli italiani abbia indicato la conciliazione vita-lavoro, che si posiziona al secondo posto dopo solamente la remunerazione economica (68%). Si tratta di un criterio che riguarda più donne (52%) che uomini (44%), ma comunque trasversale a tutte le generazioni e che, anzi, aumenta con l’avanzare dell’età lavorativa. Inoltre, è una necessità particolarmente sentita da quelle categorie di lavoratori che non hanno accesso al lavoro da remoto (52% vs 44% di chi fa uso di smart working) e che, quindi, desiderano poter usufruire di forme alternative di flessibilità lavorativa.
Per le aziende, dunque, la flessibilità – di orario e/o di luogo – potrebbe avere un ruolo cruciale nel prossimo futuro per garantire il livello di equilibrio tra lavoro e vita privata desiderato dai dipendenti, specie se collegata all’attuale gap tra domanda ed offerta di lavoro. A tendere, infatti, le risorse migliori potrebbero scegliere di andare verso quelle aziende che offriranno loro condizioni lavorative più vicine alle proprie esigenze. Basti pensare che il 45% degli italiani intervistati prenderebbe o ha preso in considerazione l'idea di cercare un altro lavoro se il loro datore di lavoro insistesse sul ritorno in ufficio a tempo pieno.