ROMA Ancora non ci siamo. Tutto è rimandato a dopo Pasqua, causa mancanza del numero legale a Palazzo Madama. Di nuovo. Chi s’illudeva che, dopo le modifiche in commissione Affari costituzionali, il percorso in Aula del ddl di riforma del Terzo settore sarebbe stato in discesa, ieri si è dovuto ricredere. E non solo per il tanto ostacolato emendamento sulla Fondazione Italia Sociale che il governo, dopo averlo ritirato in commissione per superare lo stallo di 280 richieste di cambiamento, ha ripresentato in assemblea con un piccolo
maquillage. A quel punto, nella discussione in emiciclo, non si è neppure arrivati. Il Senato infatti – dopo il via libera con qualche aggiustamento all’articolo 5, quello riguardante lo status di volontario e le specificità del lavoro gratuito – si è impantanato sul punto 6, in cui viene affrontata la questione del- l’impresa sociale. «Un ibrido», secondo le opposizioni, se passasse l’attuale versione, perché renderebbe questa tipologia di società un qualcosa «a metà tra il Terzo settore e l’impresa vera e propria». Un articolo «di tipo mafioso » va giù duro perciò il senatore Carlo Giovanardi (Idea), puntando proprio il dito sulla vaghezza del testo e la mancanza di adeguati controlli. Maglie larghe che, dunque, servirebbero «ad aiutare gli amici degli amici». Sotto la lente proprio la questione dei dividendi degli utili, perché le imprese del Terzo settore non dovrebbero avere finalità di lucro, mentre per le imprese sociali – rincara la dose il senatore Maurizio Gasparri (Fi) – stando all’attuale stesura del punto 6 «tutto resterebbe troppo ambiguo». La mattinata in Aula si è chiusa con la verifica del numero legale chiesta dal leghista Roberto Calderoli e, vista l’esiguità dei presenti, con il rinvio del provvedimento al 30 marzo. Ma non sono mancati momenti di difficoltà per l’esecutivo e la maggioranza. È difatti stato scampato, grazie all’appoggio di Ala, il rischio di andare sotto proprio sull’emendamento soppressivo della norma sulle imprese sociali firmato Luigi Marino (Ap). Respinto poi dall’Aula. Dopo un primo tentativo di accantonamento chiesto dal sottosegretario con delega ai Rapporti con il Parlamento, Luciano Pizzetti – e un’ora e mezza di botta e risposta – messo ai voti il governo si salva con uno scarto di 31 preferenze. Ad appoggiare la richiesta di soppressione dell’articolo, in realtà, tutta l’opposizione (compreso il M5S) ad eccezione dei verdiniani, tanto che il senatore Domenico Scilipoti Isgrò (Fi) parla ormai di evidenza di «nuova maggioranza al Senato». Ma il gioco di numeri che di fatto ha impedito di far passare l’emendamento Marino – un esponente della maggioranza – è il segno evidente, per il presidente dei Popolari per l’Italia Mario Mauro, che il Pd «ha gettato la maschera e chiaramente espresso la determinazione di lottizzare il mondo dell’impresa sociale». L’ostacolo dell’articolo 6, cioè le caratteristiche che dovrà avere l’impresa sociale, non sarà facile da superare nemmeno mercoledì prossimo. E in più non è l’unico scoglio da affrontare. All’orizzonte c’è il controverso articolo 9, al quale il governo ha presentato l’emendamento che prevede l’istituzione della Fondazione Italia Sociale; una sorta di agenzia nazionale capace di attirare le donazioni di imprese e cittadini, con capitale di partenza un milione di euro di fondi pubblici. Una proposta che fa storcere il naso a molti anche all’interno della stessa maggioranza, che ne contestano – come l’opposizione – la natura incerta e il rischio di turbare il settore delle
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