Milano Due. Segrate. Cologno Monzese. Via Turati. Ci sono luoghi simbolo di Berlusconi e del berlusconismo che oggi più che mai tornano in primo piano. La politica ci ha abituati negli ultimi 17 anni a seguire Berlusconi ad Arcore, a Villa San Martino, rifugio casalingo, politico e «goliardico»; a Palazzo Grazioli, come dependance romana di Arcore e di Palazzo Chigi; in Sardegna, nel bunker dove staccare la spina, ritemprarsi e stupire i capi di Stato. Luoghi che l’uomo Berlusconi ha trasformato in sedi pubbliche, politiche, perfino istituzionali. Eppure le sedi dell’impero economico di Berlusconi, poco frequentate fisicamente dal Cavaliere, non sono rimaste «chiuse». Il berlusconismo abita qui. Col Biscione. Con Fininvest a fare da trait d’union fra politica e impresa. La forza, il consenso, le vittorie di Berlusconi-politico, hanno camminato di pari passo e spesso coinciso con la crescita e l’entusiasmo di investitori e consumatori per Mediaset, Mondadori, Mediolanum, Milan.E adesso? Il problema c’è. Inutile nasconderlo, sebbene la storia abbia insegnato che anche in caso di sconfitta di Berlusconi non c’è stato l’assalto alle sue aziende. Rimane memorabile la visita di Massimo D’Alema a Cologno Monzese nel 1996, quando poche settimane prima della vittoria dell’Ulivo, rassicurò il popolo del Biscione: «Sono qui per rendere omaggio a un’azienda che è un patrimonio del Paese». I tempi, certo, sono cambiati. E di mezzo c’è stato di tutto. Dopo l’annuncio delle dimissioni di Berlusconi, Mediaset ha perso in Borsa in tre giorni il 15%, bruciando 450 milioni: il calo da inizio gennaio è stato del 51,36%, perdendo anche un miliardo di capitalizzazione. Un tracollo. Che va ben oltre la crisi globale del momento. Il ridimensionamento che da oltre due anni vive Berlusconi, accerchiato politicamente, fra scandali, processi, perdita di pezzi di maggioranza e promesse non mantenute, ha avuto un parallelo disastroso in Borsa. Perfino con il diavolo rossonero, il feeling non c’è più: «Noi vogliamo un presidente», hanno gridato ultras delusi lo scorso anno alla presentazione della squadra. Lo scudetto e l’amore della figlia Barbara (nel Cda) per Pato non sono bastati a riaccendere la scintilla. Nel 2000 Mediaset, Mediolanum e Mondadori valevano in Borsa oltre 11 miliardi di euro. Oggi il gruppo a Piazza Affari è stimato poco più di 2 miliardi.Ma i colpi subiti dalle aziende non sembrano intaccare Fininvest. La holding che raggruppa le proprietà della famiglia Berlusconi, ha un patrimonio di 2,5 miliardi e ha registrato utili nel 2010 per 87,1 milioni. Nel 2009 aveva distribuito cedole per 200 milioni di euro, mentre lo scorso anno ha deciso di non staccare il dividendo per mantenere cassa rispetto all’imminente decisione sul Lodo Mondadori, arrivata poi come un macigno con il pagamento di 560 milioni di euro al gruppo di De Benedetti. La holding controlla il 39% di Mediaset, il 50% di Mondadori, il 36% di Mediolanum, oltre al Milan (100%) e al Teatro Manzoni (100%). Fa capo alla finanziaria anche la quota del 2% di Mediobanca, il salotto buono della finanza milanese. Fininvest ha poi una quasi il 24% di Molmed, lo spin-off quotato del San Raffaele attivo nella ricerca oncologica, e il 2,06% di Aedes. La famiglia Berlusconi controlla Fininvest tramite otto finanziarie, denominate tutte Holding Italiana, ma con diversa numerazione. Inizialmente queste «scatole» erano ben 22, ridotte a otto dopo l’ultimo riassetto del 2004. Nel 1994, quando Silvio Berlusconi «scese in campo» per occupare il vuoto politico lasciato dalle forze egemoni dell’area di governo della Prima Repubblica, nelle casse della holding c’erano 162 milioni di liquidità. Ora, in banca ci sono almeno 700 milioni. Nonostante l’impegno politico, il controllo fa sempre capo a Berlusconi con il 63% del capitale. I figli del primo matrimonio Marina (è anche presidente Mondadori) e Piersilvio (vice presidente Mediaset) hanno una quota del 7,65% a testa. Nell’estate del 2005 anche i figli di secondo letto, Barbara, Eleonora e Luigi, hanno ricevuto una quota del patrimonio e hanno attualmente il 21,4% di Fininvest. Tra le vicende familiari, resta ancora aperta la causa di separazione tra Berlusconi e Veronica Lario, e con essa ogni eventuale impatto sul patrimonio di famiglia. Una «guerra di successione» che il premier ha pensato di risolvere con una norma ad hoc inserita nel precedente decreto sulla stabilità (rimandata al mittente dal capo dello Stato) che apriva alla «successione ad personam». L’ultimo di tanti interventi che in questi anni hanno fatto discutere sul «conflitto d’interessi»: la salvezza di Rete 4, le agevolazioni per i decoder, l’Iva anti-Murdoch, le aste sulle frequenze digitali.Il rischio adesso è che le società vengano travolte da quello che Pier Silvio Berlusconi, alla presentazione della semestrale di Mediaset lo scorso giugno, in un momento già di forte crisi, aveva definito «clima di ostilità» nei confronti del padre. L’azienda è una «importante realtà industriale» che investirà quest’anno «1,5 miliardi di euro nel prodotto italiano» ma spesso paga considerazioni di natura politica. A vedere più cupo è forse Marina, a capo della Mondadori, che in più occasioni ha difeso strenuamente e pubblicamente il padre, parlando di «barbarie» contro di lui. Fra le difficoltà dell’editoria, il calo della pubblicità e la ristrettezza del mercato dei periodici, Mondadori soffre più di tutti. Marina non vuole rinunciare al suo «gioiello». Per questo fino all’ultimo drammatico summit notturno a Villa San Martino avrebbe incitato il padre e premier a resistere, resistere, resistere. Così è stato. Fino all’impossibile. Poi la resa. Inevitabile. Che chiude un ciclo e ne apre un altro. In Italia. E forse anche a Milano Due, Segrate, Cologno Monzese e Via Turati.