Gli universitari italiani sono dei gran lavoratori. Lo dicono i dati della sesta indagine Eurostudent presentata ieri a Milano dalla Fondazione Rui (Residenze universitarie internazionali). Realizzata tra maggio e giugno 2010 con interviste telefoniche a un campione di studenti di 26 Paesi europei (4.500 gli italiani), la ricerca rivela che il 39% degli universitari del Bel Paese studia e lavora, dato pienamente in linea con la media europea. Inoltre, il 24% degli studenti ha rinviato di almeno un anno, dopo la maturità, l’iscrizione all’università, proprio per esplorare in via preventiva il mercato del lavoro. Anche questo dato è in linea con quello di Germania, Austria e Svizzera, dove il 15% degli universitari ha ripreso gli studi dopo almeno dodici mesi di interruzione.A provocare questa cesura tra la fine della scuola superiore e l’inizio dell’università sono anche gli effetti della crisi economica sulle famiglie: il 19% degli studenti provenienti da nuclei meno abbienti è costretto a interrompere gli studi per almeno due anni, contro l’8% dei coetanei in condizione privilegiata. Chi riprende gli studi in età adulta, anche verso i 25 anni e oltre, tende a pensarsi non più semplicemente come uno “studente”, ma sempre più spesso si percepisce come “studente lavoratore”. Questa è la condizione del 40% degli universitari italiani, ma si arriva a punte anche del 65,2% tra gli studenti non frequentanti. Negli anni ’90 gli “studenti non solo studenti” erano ancora di più, il 54% del totale. Poi la riforma dell’università, hanno ricordato i ricercatori di Eurostudent, ha aumentato le ore di lezione, costringendo tanti ragazzi a rinunciare anche a quei lavori saltuari che, comunque, garantivano loro un certo grado di autonomia.Anche oggi il lavoro occasionale è la tipologia prevalente tra gli universitari e riguarda il 23,2% del campione di Eurostudent, contro il 16,4% che dichiara di avere un lavoro continuativo. Il carico di lavoro settimanale per gli “studenti non solo studenti” è di 47,6 ore, di cui 41,1 dedicate all’università (20,4 alle lezioni e 20,7 allo studio individuale) e 6,5 al lavoro retribuito. Ad essere sacrificato è, gioco forza, il tempo libero e non il tempo di studio. A livello europeo, con una media di 38 ore la settimana passate a lezione e su libri, l’Italia è infatti allineata a Germania (37 ore) e Turchia (39 ore), mentre si rivela più studiosa di Francia (31 ore) e Austria (29 ore).E la voglia di studiare non passa nemmeno dopo la “conquista” della laurea di primo livello. Il 52,5% degli iscritti dichiara di voler continuare gli studi e così la pensa anche il 46,4% degli iscritti a lauree a ciclo unico e i 24,6% degli iscritti a lauree magistrali. L’indagine Eurostudent ha rilevato anche che la propensione degli studenti di primo ciclo a proseguire gli studi è però diminuita negli anni, passando dal 63% del 2003 al 54% rilevato nel 2009. E questo, spiegano i ricercatori, può essere imputato anche alla crisi, «che riduce la possibilità delle famiglie di sostenere per molti anni gli studi dei figli».La crisi, ha però ricordato, commentando la ricerca, l’imprenditrice e presidente dell’Istituto Doxa, Marina Salamon, può diventare anche «un’opportunità di cambiamento» e un’occasione per «far emergere finalmente il merito in una società malata di raccomandazioni». Sull’opportunità di favorire esperienze di lavoro durante gli studi universitari, si è soffermato anche il prorettore vicario del Politecnico di Milano, Alessandro Balducci. «Puntiamo molto sugli stage professionali – ha ricordato – e ne promuoviamo circa 3.800 all’anno, oltre a 800 stage post laurea». Dello «sforzo di creare opportunità di internazionalizzazione per i laureandi» ha infine parlato Roberto Moscati, ordinario di Sociologia dell’educazione alla Bicocca di Milano, che ha ribadito l’importanza dei master post laurea promossi dall’ateneo in collaborazione con Assolombarda.