giovedì 7 aprile 2011
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La parabola del figlio del tranviere potrebbe essere arrivata al capolinea. Il suo ruggito alla guida del Leone di Trieste è durato poco meno d’un anno. Il condizionale è però d’obbligo, ripercorrendo la storia del "Cesare" della finanza italiana: che ha sì 76 anni, ma è uomo abituato a dar battaglia. Da 30 anni a questa parte, assieme al suo contraltare lombardo Giovanni Bazoli – animato da una ben diversa idea del "potere" – Geronzi, pragmatico e privo di retorica anche nel linguaggio, è uno degli uomini più potenti d’Italia, animatore di quell’autentico "sistema duale" del capitalismo nostrano: per un quarto di secolo hanno aggregato banche, contribuendo a creare da un lato il polo di Intesa Sanpaolo, dall’altro quello di Unicredit. Da lì hanno detto la loro in tutte le maggiori partite societarie del Paese. Tanto che una volta Geronzi disse di sé che per comandare le aziende gli bastava «alzare il telefono».Dalla Banca d’Italia, in cui entrò (per concorso) a 25 anni nel 1960, fino alle Generali, il "sistema Geronzi" è vissuto su un doppio binario: in rapporti con tantissimi, in confidenza con pochissimi. Un metodo contratto forse già quando prendeva il bus alle 6,20 del mattino da Marino, graziosa cittadina alle porte di Roma, per andare al liceo classico "Pilo Albertelli", vicino Santa Maria Maggiore. Anche su sponde opposte, è difficile trovare qualcuno che non sia stato in relazioni con Geronzi: ambienti cattolici e sinistra, Andreotti (un po’ il suo maestro) e il giornale Manifesto, Profumo e Ciarrapico, finanche (in ambito calcistico) Roma e Lazio. Fino al suo ultimo sponsor, peraltro eclissatosi negli ultimi tempi: Silvio Berlusconi, che lo elogiò in pubblico come l’«unico banchiere che non vota alle primarie» dell’Ulivo. D’altronde proprio con il suo "pianeta", Geronzi ha realizzato uno dei suoi capolavori: dopo aver assistito anche finanziariamente all’inizio Fininvest, una volta approdato nel 2008 alla presidenza della Mediobanca di Enrico Cuccia ha portato Mediaset nel patto di sindacato, assieme a Mediolanum, e fatto entrare Marina Berlusconi nel Cda di via Filodrammatici.Insomma, lui, reputato un simbolo della "romanità" innestato al Nord, è riuscito ad aprire al Cavaliere le porte di quel "salotto buono" che invece gli aveva sbarrato Enrico Cuccia, che definiva il premier come «l’impresario». Dell’analisi e dell’affermazione dei rapporti di forza, d’altronde, Geronzi ha fatto la sua bussola. Fu così già in Bankitalia quando, dopo 20 anni (lì si formò la sua amicizia, poi tramontata nel 2005, col futuro governatore Antonio Fazio), capì di avere poche chances, chiuso com’era da Ciampi e Dini, e passò prima al Banco di Napoli, poi nell’82 alla Cassa di risparmio di Roma. Ma è relativamente tardi, nell’89 (a già 54 anni), che la carriera di Geronzi ha uno scatto: il Banco di S. Spirito, storica banca romana, è in difficoltà e l’Iri di Prodi lo vende alla Cassa. Tre anni dopo nasce Banca di Roma, con Geronzi ad e Pellegrino Capaldo presidente, un binomio che lungo gli anni Novanta sarà uno degli strumenti prediletti dal sistema politico, e da Bankitalia, per intervenire sul sistema, salvando banche in difficoltà (Banco di Sicilia, Bna e Bipop) e aiutando aziende decotte. Qui si innestano le amicizie anche con Sergio Cragnotti e con Giuseppe Ciarrapico. Assieme al primo "Cesarone" ha girato a Tanzi il latte di Cirio, il cui successivo crac lo ha condotto a essere indagato per frode e a subire, il 2 marzo scorso, una richiesta di 8 anni di reclusione.Nel 2002 nasce Capitalia, ma l’altro anno-chiave è il 2005: Abn-Amro cerca di salire al 20% di Capitalia contro il volere di Geronzi, che poi muta idea e d’accordo con gli olandesi presenta a Fazio l’ipotesi Antonveneta. Fazio però dice no e opta per il progetto Fiorani. Geronzi si accredita allora come il banchiere di certo establishment, non a caso dà un contributo decisivo nella sfida per Rcs, minacciata dalle pretese di Stefano Ricucci. È la mossa che gli schiude gli orizzonti milanesi: nel 2007 arriva l’accordo con Alessandro Profumo e la fusione in Unicredit, che appanna su Roma la "stella" nascente di Matteo Arpe. E nella pagina scritta ieri c’è un micidiale paradosso che chiude l’asse Roma-Milano su cui Geronzi è cresciuto: fra i 10 pronti a dargli sfiducia c’era Alberto Nagel, che è il vicepresidente di Generali oppostosi alle mire di Bollorè, ma anche l’ad di Mediobanca (e ha firmato pure l’altro esponente di Piazzetta Cuccia), che del Leone triestino è primo azionista col 13,47%. Insomma, a dargli il benservito è stato il suo "padrone", di cui Geronzi stesso è stato presidente fino a metà 2010.
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