Una fabbrica di automobili a Detroit (Ansa)
Con uno dei suoi tweet, il Presidente degli Stati Uniti Donad Trump ha affermato che «sulla Quinta Avenue di New York si vedono troppe auto di lusso europee, in particolare tedesche» quando ha annunciato il progetto di porre un dazio del 20% sulle auto importate dall’Europa «e sulle loro componenti» ed ha fatto aprire un’indagine sulle minacce che le importazioni di automobili europee porrebbero alla «sicurezza nazionale» degli Stati Uniti.
Come visto su 'Avvenire' a metà maggio c’è, da anni, un’asimmetria tra dazi americani ed europei sulle auto: il dazio standard per importare auto negli Stati Uniti è pari al 2,5% del valore, ma raggiunge il 25% per camion e grandi mezzi di trasporto, mentre la tariffa europea comune prevede un dazio medio del 10% tanto sulle auto quanto su camion grandi mezzi di trasporto. Le ragioni sono storiche ed andranno prima o poi appianate. Tuttavia, il modo proposto dalla Casa Bianca rischia di danneggiare principalmente le fabbriche negli Stati Uniti, a ragione dell’alto grado di integrazione internazionale nel settore della metalmeccanica.
Andiamo agli aspetti specifici. Le maggiori case automobilistiche tedesche hanno impianti giganteschi in Alabama, Tennessee e Carolina del Sud, dove sono diventate le principali fonti di produzione, di reddito (e , quindi, di gettito fiscale) nonché di occupazione. La Volvo (ora di proprietà cinese ma considerata, a tutti gli effetti, negli Stati, come una casa svedese, e quindi europea) ha inaugurato un impianto analogo circa un mese fa in Carolina del Sud. Queste fabbriche fanno quasi esclusivamente assemblaggio di componenti importate soprattutto dall’Europa (principalmente dalla Germania e dalla Svezia), nonché marketing e distribuzione sul mercato americano. Su tali componenti graverebbero i nuovi dazi, aumentando in misura considerevole i costi di produzione e minando la competitività. Ciò comporterebbe un ridimensionamento che secondo dati dell’associazione imprenditoriale porterebbe ad una perdita di valore aggiunto negli Stati Uniti di ben 14 miliardi di dollari l’anno. La rappresentanza dell’Unione Europea a Washington ha prodotto uno studio ancora più allarmante: in caso di 'dazi di ritorsione' imposti dall’Europa su manufatti e su semimanufatti americani, la perdita di benessere alle due parti in causa toccherebbe i 300 miliardi di dollari e graverebbe soprattutto sugli Stati Uniti.
Queste stime vanno prese con le molle. Si tratta solo di ordini di grandezza approssimativi, in quanto un’analisi quantitativa è appena iniziata e ci vorranno mesi prima che venga completata. Più significative le stime della Camera di Commercio di Spartanburg nella Carolina del Sud dove la Bmw ha il più grande impianto di assemblaggio e distribuzione al mondo: solo nella Contea (equivalente di una nostra Provincia) sono in gioco circa cinquantamila posti di lavoro. Qui entra in ballo un dato politico: l’Alabama, la Carolina del Sud ed il Tennessee sono stati determinanti per la vittoria elettorale di Trump, ed ora rischiano di voltargli le spalle il prossimo 6 novembre, alle elezioni di medio termine. Il boomerang non riguarda solo il Sud. Nella 'rustbelt' del Nord (Illinois, Michigan) si sono già espressi contro i dazi di Trump sulle auto la General Motors e la Ford, per le quali l’import di componenti europee è vitale. Assordante, sinora, il silenzio di Fiat Chrysler Automobiles, la terza di quelle che un tempo chiamavamo le Big Three di Detroit.