La criminalità organizzata si combatte anche con l’arma dell’economia. Il concetto non è così scontato. Se non altro perché non è mai stato applicato in concreto. Il senso comune, infatti, accetta abbastanza facilmente l’idea che le organizzazioni criminali possano avere preferenze per un certo tipo di investimenti pubblici e di scelte economiche. Più difficile, invece, pensare che alcune riforme o interventi per promuovere lo sviluppo possano servire a contrastare l’attività mafiosa.Eppure è così, come dimostrano alcune recenti ricerche economiche. E nella ricetta anti-crimine spiccano misure come gli investimenti nelle attività industriali, la promozione della concorrenza, l’aumento della spesa per la protezione sociale, interventi fiscali per far crescere il potere d’acquisto delle famiglie, politiche per favorire la stessa costituzione delle famiglie e la promozione della paternità e della maternità. In generale: riforme per ridurre gli squilibri, aumentare la stabilità sociale, diffondere attività economicamente solide, offrire vere prospettive di futuro.La "scoperta" si deve a un gruppo di ricerca dell’università Cattolica del Sacro Cuore, dell’Università degli Studi di Torino e della «Federico II» di Napoli, e che verrà presentato domani mattina alla Cattolica di Milano nel contesto degli incontri sulle «Mafie al Nord» organizzato con l’associazione Libera. Le ricerche – introdotte dagli economisti Luigi Campiglio (Cattolica) e Nerina Dirindin (Torino) – offrono molti spunti innovativi, anche considerando che in Italia non esiste, curiosamente, una tradizione di studi economici sulla criminalità.Quale mercato, dunque, può favorire la proliferazione della pratica mafiosa-criminale e quali misure, invece, possono contrastarla? La considerazione di fondo, spiega Raul Caruso, l’economista della Cattolica che ha curato alcuni dei lavori in questione e coordinato la selezione delle ricerche, è che «il crimine si radica nei settori a bassa produttività, nelle attività che ricercano rendite di posizione, in quei contesti dove la torta degli appalti è vasta e gestita centralmente, e in quelle società che non hanno una visione positiva del futuro».Gli esempi non mancano. Analizzando la composizione della spesa pubblica delle regioni e i reati legati alla criminalità organizzata – come ha fatto Caruso – si vede che a una crescita del 10% della spesa nelle costruzioni o nella sanità corrisponde un aumento dei crimini rispettivamente del 3% e del 10%. Questo non vuol dire, ovviamente, che gli investimenti in questi settori siano da evitare, ma che si tratta di ambiti nei quali, se i controlli o le verifiche sono carenti, il crimine ha gioco più facile. Invece se la spesa pubblica per l’inclusione e la protezione sociale aumentasse del 10%, dunque moderando i comportamenti opportunistici, ecco che l’attività criminale calerebbe del 20-25%. Anche gli investimenti nell’industria in senso stretto hanno dimostrato di incidere positivamente nella diminuzione della criminalità. «L’iniziativa imprenditoriale può contribuire a ridurre l’impatto della criminalità organizzata – spiega Caruso –. È come se la moneta buona riuscisse a scacciare quella cattiva».Un ruolo decisivo nel respingere i reati lo ha anche l’importanza che gli individui attribuiscono al futuro rispetto al presente, una visione di sé protesa in avanti nel tempo rispetto a una chiusura delle aspettative (anche di guadagno) sull’oggi. Uno studio dei ricercatori Sergio Beraldo (Università «Federico II» di Napoli), Gilberto Turati (Torino) e Caruso (Cattolica di Milano) mostra in modo evidente come crimini e reati crescano nelle aree dove le persone si indebitano maggiormente per acquisti a breve termine, dove è minore la disponibilità a instaurare relazioni affettive durature, dove l’attenzione alla salute alimentare è più bassa. I dati nudi e crudi dicono che a un aumento del credito al consumo del 10% si assiste a un’analoga crescita dei crimini di natura violenta. Mentre se i matrimoni aumentassero del 10%, ecco che i reati patrimoniali potrebbero calare de 6% e i crimini di natura violenta addirittura del 15-20%.I rapporti di causa-effetto non sono immediati. Ma è evidente che, spiegano i ricercatori, «in contesti in cui le preferenze degli individui tendono a essere sbilanciate a favore di guadagni presenti si osserva una maggiore propensione a delinquere». Il contagio mafioso e criminale, è assodato, ha il potere di ammorbare il tessuto economico di un territorio, congelando le possibilità di sviluppo. Luigi Campiglio ha analizzato e verificato il fenomeno già nel 1993. Uno studio più recente della Banca d’Italia, presentato dal governatore Mario Draghi alla Statale di Milano nel primo del ciclo di incontri promossi da Libera, dimostra ad esempio come in Puglia e Basilicata può essere attribuito all’insorgere della criminalità organizzata una perdita di Pil di ben 20 punti percentuali in trent’anni. L’effetto depressivo è lento, ma inesorabile: porta alla distruzione del mercato e del capitale sociale, piega le speranze dei giovani costringendo i migliori a emigrare.Ma se il crimine conduce al declino economico e se il declino attira il crimine, il meccanismo può funzionare anche in senso inverso. Non solo l’educazione, insomma, anche una certa politica economica riesce ad avere effetti importanti nella lotta alle mafie e, di conseguenza, al declino. Scommettendo su interventi per accrescere la produttività e scoraggiare le rendite, per favorire le imprese manifatturiere e quelle del Terzo Settore, per aumentare la socialità delle persone e la protezione sociale, per incentivare il credito a favore di impegni importanti, per sostenere la formazione e il mantenimento di una famiglia.