venerdì 29 aprile 2011
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Per un capriccio del calendario, la que­stione sul Primo Maggio intercetta quella, non meno aperta, del ripo­so domenicale. La posizio­ne della Chiesa in materia è chiara, perché il tempo della festa, intrecciandosi con l’Eucaristia, assume un valore teologico e sacra­mentale. Non a caso, il con­sesso più vicino ai giorni nostri che affronta il tema è il Congresso eucaristico di Bari. Siamo nel 2005, un anno dopo la lettera apo­stolica Dies Domini di Gio­vanni Paolo II, ultima tap­pa di un percorso avviato dalla Laborem exercens nel 1981. Da quella visione del lavoro, che si riallaccia alle grandi encicliche sociali, discende una posizione che non ammette confu­sioni: secondo la nota pa­storale della Cei «Il giorno del Signore» (1984), la do­menica rappresenta per i cristiani un «bisogno» im­prescindibile, in quanto «ritrovarsi, per celebrarla gioiosamente insieme» è «espressa volontà di Cri­sto ». In questa domanda di riposo, forte ed esplicita, pesa il valore sacramenta­le del settimo giorno. La do­menica cristiana si identi­fica con la partecipazione alla celebrazione eucaristi­ca, «il memoriale della Pa­squa del Signore» che «ci porta nel cuore stesso di Dio» come ha ricordato a Bari Bruno Forte, arcive­scovo e teologo. Nei vent’anni che intercor­rono tra la nota Cei e il Con­gresso eucaristico ritorna spesso questa visione del riposo domenicale «sim­bolica e profetica», che e­videntemente non può es­sere aggiornata secondo i tempi della congiuntura e­conomica o della cronaca politica, anche se la Chiesa non cessa mai di seguire le evoluzioni della società. Così, già nell’84 i vescovi ammoniscono che «la do­menica dell’uomo secola­rizzato non è la stessa del cristiano» e segnalano la «situazione delicata» di chi deve lavorare di domenica. Sino dominico non possu­mus ripeteranno negli an­ni successivi, ma senza al­zare barricate: anzi, fin dall’84 si va alla ricerca di «proposte spirituali ade­guate » per chi non può go­dere del riposo e lo si invi­ta «a non soccombere, per quanto possibile, entro una struttura dei lavoro che a volte non lascia spazio alle esigenze dello spirito». La Chiesa è consapevole che questa posizione com­porta un prezzo: Wojtyla parla nell’88 di «intima par­tecipazione » al «disagio di tanti uomini e donne che, per la mancanza di posti di lavoro, sono costretti anche nei giorni lavorativi all’i­nattività », ma la mediazio­ne non può condurre a ce­dimenti sul piano dottrina­rio in quanto «il valore irri­nunciabile della domenica nella vita cristiana» è scol­pito nella «perenne tradi­zione della Chiesa, vigoro­samente richiamata dal Concilio» e per il Papa po­lacco «sarebbe un errore vedere nella legislazione ri­spettosa del ritmo settima­nale una semplice circo­stanza storica senza valore per la Chiesa e che essa po­trebbe abbandonare». Concetti che tornano al Convegno ecclesiale di Ve­rona, otto anni dopo, in u­no scenario nuovo e scon­volgente: nelle commissio­ni c’è chi propone di boi­cottare lo shopping dome­nicale e chi invita a rivisi­tare «i nuovi aeropaghi del tempo libero come luoghi di senso e di testimonian­za ». L’anno prima, la nota «Frutto della terra e del la­voro dell’uomo», ha pa­ventato il rischio che «la domenica diventi un gior­no vuoto, catturato dai fa­cili miti del consumo», mentre dovrebbe liberare l’uomo «dalla assolutizza­zione del lavoro e del pro­fitto».La preoccupazione di non contrapporre festa e svi­luppo culmina nella Cari­tas in veritate , con la quale Benedetto XVI insiste sul­l’accesso e sul manteni­mento del lavoro e stigma­tizza «la deregolamenta­zione generalizzata», ma senza alcun rovesciamen­to dottrinale: «il prossimo Congresso eucaristico, in programma ad Ancona in settembre – afferma mon­signor Angelo Casile, diret­tore dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro – rifletterà su questo tema confermando il valore es­senziale del riposo dome­nicale e la necessità di aiu­tare la gente a riscoprire la gioia della festa comunita­ria, anche impegnandoci nel proporre e vivere una li­turgia seria, semplice e bel­la, basata tra l’altro sull’a­mabilità dell’accoglienza e l’intensità della preghiera».
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