Per un capriccio del calendario, la questione sul Primo Maggio intercetta quella, non meno aperta, del riposo domenicale. La posizione della Chiesa in materia è chiara, perché il tempo della festa, intrecciandosi con l’Eucaristia, assume un valore teologico e sacramentale. Non a caso, il consesso più vicino ai giorni nostri che affronta il tema è il Congresso eucaristico di Bari. Siamo nel 2005, un anno dopo la lettera apostolica Dies Domini di Giovanni Paolo II, ultima tappa di un percorso avviato dalla Laborem exercens nel 1981. Da quella visione del lavoro, che si riallaccia alle grandi encicliche sociali, discende una posizione che non ammette confusioni: secondo la nota pastorale della Cei «Il giorno del Signore» (1984), la domenica rappresenta per i cristiani un «bisogno» imprescindibile, in quanto «ritrovarsi, per celebrarla gioiosamente insieme» è «espressa volontà di Cristo ». In questa domanda di riposo, forte ed esplicita, pesa il valore sacramentale del settimo giorno. La domenica cristiana si identifica con la partecipazione alla celebrazione eucaristica, «il memoriale della Pasqua del Signore» che «ci porta nel cuore stesso di Dio» come ha ricordato a Bari Bruno Forte, arcivescovo e teologo. Nei vent’anni che intercorrono tra la nota Cei e il Congresso eucaristico ritorna spesso questa visione del riposo domenicale «simbolica e profetica», che evidentemente non può essere aggiornata secondo i tempi della congiuntura economica o della cronaca politica, anche se la Chiesa non cessa mai di seguire le evoluzioni della società. Così, già nell’84 i vescovi ammoniscono che «la domenica dell’uomo secolarizzato non è la stessa del cristiano» e segnalano la «situazione delicata» di chi deve lavorare di domenica. Sino dominico non possumus ripeteranno negli anni successivi, ma senza alzare barricate: anzi, fin dall’84 si va alla ricerca di «proposte spirituali adeguate » per chi non può godere del riposo e lo si invita «a non soccombere, per quanto possibile, entro una struttura dei lavoro che a volte non lascia spazio alle esigenze dello spirito». La Chiesa è consapevole che questa posizione comporta un prezzo: Wojtyla parla nell’88 di «intima partecipazione » al «disagio di tanti uomini e donne che, per la mancanza di posti di lavoro, sono costretti anche nei giorni lavorativi all’inattività », ma la mediazione non può condurre a cedimenti sul piano dottrinario in quanto «il valore irrinunciabile della domenica nella vita cristiana» è scolpito nella «perenne tradizione della Chiesa, vigorosamente richiamata dal Concilio» e per il Papa polacco «sarebbe un errore vedere nella legislazione rispettosa del ritmo settimanale una semplice circostanza storica senza valore per la Chiesa e che essa potrebbe abbandonare». Concetti che tornano al Convegno ecclesiale di Verona, otto anni dopo, in uno scenario nuovo e sconvolgente: nelle commissioni c’è chi propone di boicottare lo shopping domenicale e chi invita a rivisitare «i nuovi aeropaghi del tempo libero come luoghi di senso e di testimonianza ». L’anno prima, la nota «Frutto della terra e del lavoro dell’uomo», ha paventato il rischio che «la domenica diventi un giorno vuoto, catturato dai facili miti del consumo», mentre dovrebbe liberare l’uomo «dalla assolutizzazione del lavoro e del profitto».La preoccupazione di non contrapporre festa e sviluppo culmina nella Caritas in veritate , con la quale Benedetto XVI insiste sull’accesso e sul mantenimento del lavoro e stigmatizza «la deregolamentazione generalizzata», ma senza alcun rovesciamento dottrinale: «il prossimo Congresso eucaristico, in programma ad Ancona in settembre – afferma monsignor Angelo Casile, direttore dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro – rifletterà su questo tema confermando il valore essenziale del riposo domenicale e la necessità di aiutare la gente a riscoprire la gioia della festa comunitaria, anche impegnandoci nel proporre e vivere una liturgia seria, semplice e bella, basata tra l’altro sull’amabilità dell’accoglienza e l’intensità della preghiera».