mercoledì 30 agosto 2023
Consente di accedere a un salario del 45% superiore rispetto a quello di un non laureato (in media 13mila euro di differenza sulla Ral-Retribuzione annua lorda). I nodi Sud e divario di genere
Cerimonia di laurea alla Bocconi di Milano

Cerimonia di laurea alla Bocconi di Milano - Fotogramma

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Nonostante un sistema scolastico e formativo non certamente all’avanguardia (in Italia la spesa per l'istruzione ammonta al 4,3% del Pil contro una media europea del 5%), studiare rimane un ottimo investimento. Infatti, tanto più alto è il livello di istruzione, tanto maggiori sono le possibilità di occupazione e tanto migliori sono le prospettive di carriera e di guadagno. Da questo punto di vista l’istruzione terziaria rappresenta un acceleratore molto forte, come dimostrano i dati relativi alle prospettive occupazionali e salariali dei laureati: possedere una laurea consente di accedere a un salario del 45% superiore rispetto a quello di un non laureato (in media 13mila euro di differenza sulla Ral-Retribuzione annua lorda). Esiste, inoltre, una marcata differenza a seconda del percorso di studi intrapreso (le discipline Stem-Scienze, tecnologia, ingegneria e matematica sono decisamente quelle più remunerative). Non solo, è molto importante l’Ateneo in cui si sceglie di studiare: i Politecnici e le Università private pagano in media di più di quelle pubbliche e, a livello geografico, gli Atenei del Nord rendono di più rispetto a quelle del Sud. L'Osservatorio JobPricing analizza nel suo rapporto annuale, in collaborazione con Lhh recruitment solutions, il ritorno dell'investimento dell'istruzione terziaria mettendo a confronto i vari percorsi di laurea e i principali Atenei. «Anche in questa edizione - spiega Alessandro Fiorelli, ceo di JobPricing - ormai l'ottava dell'University report, si conferma che l'idea che studiare non serva è un luogo comune privo di fondamento poiché i dati ci dicono esattamente il contrario. Anzi, il percorso che porta fino alla laurea risulta particolarmente premiante: si sta tratta, però, di una scelta da compiere in modo molto oculato e con estrema attenzione visto che il tipo di percorso di studi e perfino l'ateneo scelto sono fortemente impattanti in termini occupazionali, di carriera e quindi di guadagno nel medio e lungo termine». «Molto spesso - commenta Mariangela Lupi, head of Hr di Lhh - nel dibattito a cui stiamo assistendo sul salario minimo, manca o è molto marginale il riferimento alle competenze. Ancora una volta però questa analisi mette in luce come la formazione, ed in particolare la formazione universitaria, sia un ottimo viatico per percorsi di carriera brillanti. Il ridotto numero di iscrizioni all'università, unito ad elevati tassi di abbandono scolastico, implicano infatti un alto tasso di disoccupazione giovanile. L'investimento in formazione indipendentemente dai tempi di ritorno che possono variare dalla facoltà e dall'ateneo che si sceglie di frequentare, è dunque un buon investimento. Dalla nostra esperienza possiamo notare come nei percorsi di carriera emerge rarissimamente un diplomato rispetto ad un laureato. Questo non vuol dire che non si possa trovare una collocazione professionale senza laurea, ma i dati dimostrano che l'accrescimento delle competenze date da percorsi di studio solidi è ancora, specie nel privato, il viatico necessario per accrescere i propri livelli retributivi». In questo processo di ripresa la scarsità di risorse investite per l’istruzione (attuale e passata) costituisce un segnale negativo, soprattutto perché la nostra forza lavoro è meno qualificata rispetto agli altri Paesi, e in funzione della tipologia del tessuto imprenditoriale italiano, caratterizzato da una presenza
di micro e piccole imprese più capillare che in altri Stati. La conseguenza è che l'Italia non è così pronta come altri concorrenti esteri per reclutare talenti e implementare le innovazioni necessarie per fronteggiare le importanti sfide che ci attendono. La nostra società, ad ogni modo, si è orientata sempre più, anche in seguito alla pandemia, verso scelte occupazionali e organizzative maggiormente focalizzate sulla qualità delle risorse umane. Al contempo, i fondi stanziati del Next Generation EU andranno utilizzati in modo efficace e senza sprechi, e il Pnrr-Piano nazionale di ripresa e resilienza costituisce un’imperdibile opportunità per favorire la ripresa del sistema economico italiano. Gli obiettivi strategici di digitalizzazione, transizione ecologica e inclusione sociale, che stanno già cambiando il mercato del lavoro, avranno un impatto sempre più rilevante e richiederanno la presenza di lavoratori sempre più specializzati. In base alle previsioni Excelsior circa i fabbisogni occupazionali relativi al quinquennio 2023-2027 i profili di cui si avrà maggiormente necessità saranno proprio quelli altamente qualificati, mentre le professioni a bassa qualifica risulteranno sempre più residuali. Per esempio, nella pubblica amministrazione il 64,6% della forza lavoro sarà costituita da professioni a elevata specializzazione e tecniche, il 28,9% da profili impiegatizi a intermedia specializzazione e solo il 5,6% da profili a bassa qualifica; nel settore privato la quota sarà del 31,9% per le professioni ad alta specializzazione, il 35,2% per profili intermedi e il 32,9% per profili a bassa qualifica. Questi dati appaiono piuttosto chiari: il livello di formazione dei lavoratori dovrà essere sempre più alto nel prossimo futuro e, nonostante le difficoltà con le quali il nostro Paese deve misurarsi, l’istruzione risulta essere la chiave di volta per poter innescare un processo di ripresa. Tuttavia, il ridotto numero di iscrizioni all’Università, unito a elevati tassi di abbandono scolastico, implicano un alto tasso di disoccupazione giovanile soprattutto se paragonata ad altri Paesi vicini. Se si focalizza l’attenzione sulla disoccupazione dei giovanissimi (15-24 anni) in diversi Paesi Ocse, si scopre che l’Italia si posiziona quarta per disoccupazione (29,7%), dopo Costa Rica (39,5%), Grecia (35,5%) e Spagna (34,8%). In linea generale, investire il proprio tempo in istruzione dovrebbe assicurare un più facile accesso al mercato del lavoro. Una formazione migliore permette infatti di avvicinare le competenze possedute a quelle che sono necessarie per operare nel mercato. E anche nei casi in cui le competenze non sono esattamente quelle ricercate, si è tendenzialmente agevolati nei processi di formazione e aggiornamento on the job. Questo fatto è facilmente riscontrabile osservando alcuni tra i principali indicatori del mercato del lavoro. È vero che l’Italia è un Paese con alti livelli di disoccupazione (8,2%), seppur tale dato sia in miglioramento rispetto al 2021 in cui il tasso era del 9,7%, ma è vero anche che coloro i quali hanno titoli di studio maggiori hanno livelli di occupazione più alti (80,6%) e disoccupazione (4,2%) e inattività (15,9%) più bassi, per tutte le fasce di età.

Almalaurea, migliora il lavoro non lo stipendio

Le prospettive di studio e di lavoro dei laureati italiani - a giudicare dal XXV Rapporto di AlmaLaurea - presentano un miglioramento della condizione occupazionale, sia a uno che a cinque anni dalla laurea, le retribuzioni risultano invece in diminuzione in termini reali. Ma dalla tradizionale indagine del consorzio universitario presieduto da Ivano Dionigi emergono tanti altri spunti: dalle esperienze di studio all’estero che continuano a risentire dell’effetto Covid all’emergenza alloggi, da un miglioramento complessivo delle carriere universitarie al divario di genere, dalla mobilità studentesca che continua a muoversi lungo l’asse Sud-Nord a una soddisfazione generale per gli studi fatti. Il Rapporto 2023 sulla condizione occupazionale dei laureati di 78 Atenei prende in esame 670mila persone in possesso di un titolo d’istruzione superiore e analizza i risultati raggiunti sul mercato del lavoro dopo uno, tre e cinque anni. Ebbene, nel 2022 risulta migliorata ancora la capacità di assorbimento del mercato del lavoro, rispetto non solo al 2021, ma anche a quanto osservato negli anni pre-pandemia. Così si registrano i più alti livelli occupazionali dell'ultimo decennio, tra i laureati sia di primo sia di secondo livello (ma non a cinque anni). Più nel dettaglio il tasso di occupazione a un anno dal titolo risulta pari al 75,4% tra i laureati triennali e al 77,1% tra magistrali e a ciclo unico (+0,9% e +2,5% sul 2021); a cinque anni sale al 92,1% per i primi e all'88,7% per i secondi (+2,5% e +0,2% sul 2021). Tra gli occupati a un anno dal titolo, i contratti a tempo indeterminato sono aumentati (+4,6 punti percentuali per i laureati di primo livello e +3,9 punti per quelli di secondo livello, rispetto al 2021) mentre si sono ridotti sia i contratti a tempo determinato (-4,0% e -2,3%) sia le attività in proprio (-0,4% e -1,4%). Anche a cinque anni dal conseguimento del titolo i contratti a tempo indeterminato risultano in aumento, soprattutto tra i laureati di primo livello (+3,7 punti percentuali; +0,5 per quelli di secondo livello) e coinvolgono oltre la metà degli occupati (68,2% tra i laureati di primo livello e 51,1% tra quelli di secondo livello). La rilevazione AlmaLaurea sul 2022 mostra come lo smart working, e più in generale il lavoro da remoto, coinvolga il 17% dei laureati di primo livello e il 27,6% di quelli di secondo livello occupati a un anno dal titolo. Nonostante le quote siano in calo rispetto a quanto osservato nel 2021 (-2,7% e -3,9%), a seguito di un graduale ritorno alla normalità dopo la fase emergenziale, questa modalità di lavoro è comunque più diffusa rispetto a quanto osservato prima dello scoppio della pandemia. Nel 2022, a un anno dal titolo, la retribuzione mensile netta è, in media, pari a 1.332 euro per i laureati di primo livello e a 1.366 euro per i laureati di secondo livello. In termini reali tali valori sono in calo nell’ultimo anno del 4,1% per i laureati di primo livello e del 5,1% per quelli di secondo livello. A cinque anni dal titolo la retribuzione mensile netta è pari a 1.635 euro per i laureati di primo livello e a 1.697 euro per quelli di secondo livello, con una riduzione delle retribuzioni reali rispetto al 2021 del 2,4% e del 3,3%.

Il nodo Sud e divario di genere

Dal confronto tra la ripartizione geografica di residenza e quella di lavoro, emerge che nel 2022, complessivamente, la mobilità per motivi di lavoro riguarda il 15,8% dei laureati di primo livello e il 27%
di quelli di secondo livello occupati a un anno dal conseguimento del titolo. La mobilità per lavoro riguarda
soprattutto i residenti nel Mezzogiorno (33,3% per i laureati di primo livello e 47,5% per quelli di secondo
livello), mentre è decisamente più contenuta per i residenti al Nord (4,5% e 6,1%, rispettivamente). Dopo le limitazioni degli spostamenti legate alla diffusione della pandemia da Covid-19, nel 2022 si osserva un aumento della mobilità per ragioni lavorative. Tale incremento è più consistente per i residenti nel Mezzogiorno (nell’ultimo anno oltre due punti percentuali), per gli uomini e per quanti provengono da contesti familiari più favoriti. I numeri di AlmaLaurea confermano che gli spostamenti nel nostro Paese avvengono tendenzialmente lungo l’asse Sud-Nord. Già all’atto della prima iscrizione all’Università. Se è vero che il 18,1% dei laureati del 2022 si sposta per studiare è altrettanto vero che questo fenomeno al Nord è quasi impercettibile; tende a partire, infatti, solo il 3,6% di chi si era diplomato al Settentrione. Parecchio stanziali sono anche i loro colleghi del Centro, visto che se ne va solo il 13,9%, quasi sempre (l’11,4%) risalendo lo Stivale. È solo al Sud, dunque, che il fenomeno migratorio assume proporzioni considerevoli: il 28,6% si laurea in un Ateneo centro-settentrionale. Con una crescita lenta, ma inesorabile, visto che nel 2013 tale quota era al 23,2% e neanche il Covid-19 è bastato ad arrestarla. Se passiamo ad analizzare qual è il momento in cui i laureati meridionali lasciano le zone di residenza scopriamo che il 24% va via già al momento della triennale, il 22,4% lo fa per la magistrale a ciclo unico e il 39,8% per la magistrale biennale. Quest’ultimo dato resta alto (38,4%) anche se consideriamo solo i ragazzi e le ragazze del Sud che hanno compiuto lontano da casa l’intero percorso universitario. Ciò significa che poco più del 60% resta a studiare al Mezzogiorno. Per capirci, la stessa percentuale al Centro è del 78,6% e al Nord del 94,2%. Le tradizionali differenze di genere, già evidenziate per il tasso di occupazione, si confermano significative anche sulla retribuzione: a parità di condizioni, a un anno dalla laurea gli uomini percepiscono in media 70 euro netti in più al mese. Si rilevano differenziali retributivi anche in termini territoriali: rispetto a chi è occupato nel Mezzogiorno, chi lavora al Nord percepisce in media 101 euro mensili netti in più, mentre chi lavora al Centro 53 euro in più. Ma è soprattutto tra i laureati che lavorano all’estero che il vantaggio retributivo si accentua sensibilmente: oltre 600 euro netti mensili in più rispetto a chi lavora nel Mezzogiorno. L'analisi di genere mostra che, a parità di ogni altra condizione, a un anno dal titolo gli uomini hanno l'11,7% di probabilità in più di essere occupati rispetto alle donne. Anche in termini di ripartizione geografica di residenza si confermano significative differenze. Quanti risiedono al Nord presentano una maggiore probabilità di essere occupati (+32,1%) rispetto ai residenti nel Mezzogiorno. Inoltre, chi si sposta per motivi di studio ha il 6% in più di probabilità di essere occupato rispetto a chi resta nella provincia di residenza. Al tempo stesso viene confermato il valore delle esperienze di studio all’estero (+12,3% di probabilità di essere occupato). Questa voce continua a risentire dell’effetto-Covid, visto che coinvolge l’8,3% dei laureati nel 2022 contro l’11% e passa del 2020.





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