giovedì 31 ottobre 2013
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Per afferrare a pieno il dibattito di politica economica in corso in Italia (compreso quello sulla legge di Sstabilità in discussione al Se­nato), occorre tenere conto non sola­mente degli obblighi europei (come quelli derivanti dal Trattato di Maa­stricht e dal Fiscal Compact), ma an­che del contesto internazionale.
Dalla metà degli anni Novanta l’eco­nomia mondiale è alla ricerca di nuo­vi equilibri: Europa, Nord America e pochi Paesi dell’Emisfero Meridiona­le hanno perso infatti il monopolio del progresso tecnologico di cui hanno go­duto per due secoli. Ciò ha consentito da un lato a circa un miliardo e mezzo di persone di uscire dalla povertà as­soluta (un reddito equivalente a meno di due dollari al giorno), dall’altro ha comportato una contrazione dei red­diti nelle aree che hanno mostrato me­no «efficienza adattativa» alla nuova situazione. Nell’ambito di questo contesto più va­sto, vediamo cosa sta avvenendo negli Usa, in Asia edin Europa e ciò che com­porta per noi.
Negli Stati Uniti e nel vi­cino Canada è in corso una ripresa: nel­l’ultimo trimestre il Pil dei due Paesi è cresciuto a tassi annui, rispettivamen­te, del 2,5% e dell’1,7%. La disoccupa­zione è sul 7% della forza lavoro e il tas­so d’inflazione attorno all’1,3%. So­prattutto, la crisi del 2007-2010, ha for­nito agli Usa l’occasione di ridurre dra­sticamente indebitamento di famiglie ed imprese (grazie anche – occorre dir­lo – a una normativa fallimentare par­ticolarmente attenta a questi aspetti): nel 2008, l’indebitamento di famiglie e imprese americane sfiorava il 350% del Pil rispetto al 180% oggi (tanto quan­to l’Italia). Ciò è avvenuto anche gra­zie alla crescita alimentata in parte da flussi immigratori (specialmente di giovani molto preparati e molto deter­minati ad avere un futuro migliore), ma anche a una politica di bilancio e della moneta rivolta allo sviluppo.
Ciò ha comportato misure monetarie non convenzionali (ossia un’espansione della liquidità che consente ai tassi d’interesse a dieci anni di aggirarsi sul 3% l’anno), una politica di bilancio mo­deratamente restrittiva (si pensi al di­battito sull’autorizzazione ad aumen­tare il tetto del debito pubblico) e una negligenza benevola nei confronti del tasso di cambio, che si è gradualmen­te deprezzato, nel corso dell’ultimo an­no, rispetto alle principali valute.
Il deprezzamento del cambio Usa preoccupa naturalmente l’Euro­pa e l’Italia. Preoccupa ancora di più l’Asia, specialmente la Cina (prin­cipale acquirenti, da lustri, di titoli de­nominati in dollari). Tuttavia, nel ba­cino del Pacifico, gli effetti della poli­tica economica americana sono tem­perati, in parte, dall’«Abenomics», la forte politica espansionista del Giap­pone, nonché dal leggero rallenta­mento della crescita cinese e dai se­veri problemi interni del Celeste Im­pero: si pensi solamente agli effetti nefasti di anni di politica di severo controllo nelle nascite. L’Asia è comunque in crescita soste­nuta e sta risolvendo parte dei pro­blemi di povertà assoluta.
Tuttavia, sono in fase di rallentamento i programmi di integrazione finanziaria, monetaria e commerciale, abbozzati in passato seguendo l’esempio del­l’Unione Europea (Ue). O meglio si sta andando lentamente verso una vasta zona di libero scambio del Pa­cifico, con un drappello di punta nei Paesi dell’Asean (Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico) mentre sembrano accantonati quelli finan­ziari e monetari (anche per evitare tensioni quali quelle oggi in atto nel Vecchio Continente). A riguardo, oc­corre valutare molto positivamente l’iniziativa presa all’inizio di ottobre dal governo Letta di annunciare per l’autunno 2014 una riunione a Mila­no dei Capi di Stato e di governo del­l’Asem (Asia - Europa Meeting) , una struttura agile che in passato è stata molto utile alla collaborazione tra i due Continenti e alla loro compren­sione reciproca, ma che negli ultimi anni era parsa in dormiveglia.
È chiaro che per gli Stati Uniti gran parte dell’Europa è considerata di fat­to un «vecchio» Continente, con me­no potenziale, cioè, per gli america­ni, dell’Asia. Tuttavia, da Washington è stato presentato un ramoscello d’u­livo: la Transatlantic Partership, un grande negoziato per liberalizzare barriere agli scambi di merci e servi­zi. Esso rappresenta un’opportunità per i Paesi con più difficoltà a cresce­re (per l’Eurozona il 2013 si chiude con una contrazione del Pil dello 0,3% e per l’Italia dell’1,7%). Implichereb­be infatti una drastica revisione della politica agricola comune (che pesa in modo molto forte sui contribuenti e sui consumatori italiani) e una forte apertura dei servizi (in primo luogo quelli finanziari). Bloccare la trattati­va in nome dell’«eccezione cultura­le » (tesi francese, seguita però da nu­merosi italiani) potrebbe avere un co­sto elevato soprattutto per le future generazioni.
Il quadro economico internazionale, quindi, quasi ci obbliga a una strate­gia di crescita. A riguardo sarà inte­ressante notare nelle prossime setti­mane le reazioni alla proposta tede­sca di rivedere i Trattati dell’eurozo­na tramite protocolli interpretativi e accordi contrattuali. Il secondo se­mestre 2014, quando l’Italia presie­derà il Consiglio europeo, potrebbe essere la fase chiave di una trattativa. Già si parla di un grande convegno in­ternazionale tecnico a Roma per il 24-25 marzo sotto l’egida dell’Istituto Af­fari Internazionali, da sempre molto vicino alla Farnesina.​
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