sabato 10 giugno 2023
A distanza di tre anni dal boom obbligato dalla pandemia il lavoro a distanza non è decollato Nel 2022 sono state coinvolte 3,6 milioni di persone (circa 500mila in meno rispetto al 2021)
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Imprescindibile per centinaia di professioni nei mesi più bui del Covid, utile nella lenta fase di uscita dalla pandemia anche con l’obiettivo di raggiungere un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro, fortemente ridimensionato adesso che l’emergenza sanitaria è ufficialmente terminata: lo smart working è in frenata in Italia.

A tre anni di distanza dal boom “obbligato”, il lavoro da remoto non è decollato. Anche se il governo ha prorogato al 31 dicembre lo smart working in scadenza a fine giugno per i lavoratori fragili e i genitori con figli under 14 nel privato (mentre per la Pubblica amministrazione il nodo è ancora da sciogliere), molte aziende in realtà già nei mesi scorsi si sono mosse per “ripopolare” sedi e uffici. Contemporaneamente al ridimensionamento dello smart working, inoltre, sta cambiando l’organizzazione del lavoro. L’attenzione del mercato occupazionale, infatti, adesso sembra molto concentrata sulla rimodulazione degli orari, con le prime esperienze di settimana corta (4 giorni di lavoro invece di 5) che state avviate anche in Italia.

Partendo dal rallentamento del lavoro agile, la tendenza è confermata dai principali osservatori e centri di ricerca che monitorano il fenomeno. Un trend dovuto soprattutto ai passi indietro che sono stati compiuti (o comunque preannunciati) dalle Pmi e da alcuni enti pubblici. «Già l’anno scorso siamo scesi a un livello molto lontano dai picchi della primavera del 2020, quando con il lookdown duro si era arrivati a 6,5 milioni di lavoratori operativi da remoto – racconta Fiorella Crespi, direttrice dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano –. Nel 2022 abbiamo contato 3 milioni e 570mila persone che almeno per parte tempo hanno lavorato in smart working, ovvero circa 500mila in meno dell’anno precedente». Entrando nel dettaglio della rilevazione, Crespi spiega che «a fronte di una leggera ma costante crescita del lavoro a distanza nelle grandi aziende, anche se è calata l’intensità (al massimo due o tre giorni a settimana) perché lo smart working “estremo” è quasi sparito, si è registrata invece una marcia indietro per quanto riguarda in particolare le piccole e medie imprese (pmi) e le pubbliche amministrazioni». Le stime calcolate alla fine dello scorso anno dall’Osservatorio del Politecnico indicavano una sostanziale stabilità del numero di “smart workers” per il 2023 (3 milioni e 630mila persone). Ma sono rilevazioni effettuate quando anche a livello politico-istituzionale sembrava esserci un sentiment più favorevole al lavoro a distanza. Per cui, la spinta degli ultimi mesi sul ritorno in presenza probabilmente porterà ad aggiornare al ribasso le previsioni per il 2023.

Tra le ragioni che hanno portato tante realtà di dimensioni ridotte a diminuire le ore lavorare a distanza, ci sono ostacoli culturali, logistici e tecnologici. «Nelle piccole e medie imprese il calo è dovuto sicuramente a una cultura organizzativa che, soprattutto in alcuni comparti, si focalizza sul controllo della presenza, mentre bisognerebbe imparare a valutare di più il lavoro sugli obiettivi, che non devono essere per forza annuali ma anche mensili o settimanali», afferma Crespi. Inoltre, il lento processo di digitalizzazione di tante realtà aziendali di certo non facilita una diffusione del lavoro da remoto per tanti dipendenti. Quanto al settore pubblico, secondo Crespi, l’indirizzo politico è un fattore determinante per la diffusione dello smart working. E il vento sembra essere cambiato rispetto agli anni scorsi.

Da uno studio diffuso recentemente dall’Inapp in Italia solo il 14,9% degli occupati opera a distanza, con un potenziale pari a circa il 40%. L’opportunità dello smart working, insomma, non viene “sfruttata” quanto si potrebbe. E il bacino potenziale riguarda soprattutto i laureati, il personale delle grandi imprese, gli occupati nei servizi e i dipendenti pubblici. «In generale nel pubblico si paga una maggior pigrizia nell’innovazione rispetto al privato – sottolinea il presidente dell’Inapp Sebastiano Fadda –. Se non si riprogettano i processi, i servizi e le procedure in modo innovativo non si potrà mai diffondere lo smart working in modo efficace nella Pubblica amministrazione». Secondo Fadda molte prestazioni per il pubblico potrebbero essere svolte prevalentemente in via digitale, invece spesso è necessaria la presenza fisica agli sportelli: «Senza un’innovazione tecnologica avanzata (che non significa solo l’uso del computer e una connessione a Internet, ma deve comprendere l’intelligenza artificiale, il cloud e la realtà aumentata) la Pubblica amministrazione non riuscirà a dotarsi di una nuova organizzazione del lavoro “ibrida”, con una combinazione efficace tra attività svolte in presenza e da remoto». Un altro investimento indispensabile, per Fadda, è quello formativo: «C’è una grave carenza di competenze digitali nel management della pubblica amministrazione che andrebbe colmata mettendo in campo un’ampia offerta formativa».


Sebastiano Fadda, presidente dell’Inapp: «Nel settore pubblico si paga una maggiore pigrizia nell’innovazione rispetto al privato. Servono investimenti in campo digitale e per la formazione dei manager»

Al di là del ricorso più o meno diffuso allo smart working, in molte realtà aziendali è in atto una revisione dei processi e dell’organizzazione del lavoro. Alcune aziende, per esempio, negli ultimi mesi hanno iniziato a sperimentare la settimana lavorativa di 4 giorni. Intesa Sanpaolo, per esempio, da inizio anno ha avviato un nuovo modello organizzativo del lavoro (a fine maggio è stato firmato anche l’accordo con i sindacati) che permette di integrare tra loro più strumenti: il lavoro agile, la flessibilità di orario e, appunto, la settimana corta. Tra le principali novità ci sono 120 giorni di smart working all’anno, flessibilità di orario all’ingresso tra le 7 e le 10 e la possibilità di usufruire della settimana corta (9 ore di lavoro al giorno per 4 giorni alla settimana). Si tratta di strumenti disponibili su base volontaria e a parità di retribuzione, che permettono di organizzare il tempo nel modo più congeniale senza diminuire la produttività per l’azienda. «L’elemento fondamentale per il successo di questo modello è la diffusione di una cultura orientata agli obiettivi e al senso di responsabilità, e su questo stiamo molto investendo – commenta Paola Angeletti, Chief Operating Officer Intesa Sanpaolo –. Siamo convinti che promuovere il benessere delle persone e valorizzare i talenti di tutti sia indispensabile per costruire la banca del futuro, in grado di affrontare le prossime sfide in mercati in continua trasformazione, grazie a un modello sempre più agile e dinamico». L’esperimento di Intesa Sp per ora sembra funzionare: dal 1° gennaio, quando le nuove misure sono state avviate, hanno aderito al nuovo lavoro flessibile 40.000 persone (circa il 70% di chi poteva essere abilitato) e alla settimana corta circa 17.000 dipendenti, pari al 60% del personale full time delle strutture di governance e di 12 grandi filiali.


Alcune aziende rivedono i modelli organizzativi. Intesa Sanpaolo sperimenta la settimana corta. Paola Angeletti: «Stiamo investendo per diffondere una cultura orientata agli obiettivi e al senso
di responsabilità»

«Sicuramente agire sulla leva oraria, finora poco utilizzata, è un modo per dare più flessibilità alle persone e autonomia nella gestione del lavoro», evidenzia Fiorella Crespi. «Ma concentrare il lavoro in 4 giorni anziché in 5 non è detto che porti automaticamente vantaggi e benefici per i tutti i dipendenti e per tutte le aziende – avverte la direttrice dell’Osservatorio smart working del Politecnico milanese –. Oltre a valutare possibili ripercussioni sui livelli dei servizi per i clienti, infatti, non si può escludere che, in particolare per i dirigenti di un’azienda, dal lunedì al giovedì ci sia un tale aumento delle difficoltà organizzative, dei carichi di lavoro e dello stress che rischia di essere superiore al giovamento di avere un giorno libero in più a settimana».

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