Ansa
Nel Paese delle mille contraddizioni, quella del lavoro resta una delle spie più evidenti di un’economia diseguale, un’economia in cui il dato record sull’occupazione non si traduce in un adeguato aumento dei salari né, come segnalato da più ricerche, da una riduzione dei divari, che tendono semmai ad allargarsi. È come se elementi tra loro legati come lavoro e retribuzioni – pur in un mercato in cui le aziende faticano a trovare lavoratori, fattore che dovrebbe teoricamente spingere di molto al rialzo gli stipendi – andassero ognuno per proprio conto, il tutto mentre peraltro ancora 29 contratti di lavoro, che coinvolgono 6,5 milioni di dipendenti, sono in attesa di rinnovo.
Secondo l’Istat in Italia c’è sempre più lavoro, ma gli stipendi non tengono il passo con l’inflazione, crescendo nel 2023 solo del 3,1% contro il 5,9% dell’Indice dei prezzi al consumo. E non basta avere un lavoro se poi quel lavoro non consente a molti di mantenere una vita dignitosa, di poter pagare un affitto o un mutuo senza affanni, di far frequentare ai propri figli attività extra-scolastiche o di poter assicurare assistenza a un anziano o a un familiare malato.
Si dirà: colpa di un anno particolarmente caldo sul fronte inflazione. Ma la traiettoria è sbilanciata ormai da molti anni, come mostrato di recente da un rapporto Inapp, secondo cui tra il 1991 e il 2022 i salari reali in Italia sono rimasti sostanzialmente al palo, con una crescita dell’1%, a fronte del 32,5% in media registrato nell’area Ocse. Il dato di dicembre dice che gli occupati si sono assestati a quota 23,75 milioni, con il tasso di disoccupazione totale sceso al 7,2% (-0,2 punti rispetto a novembre, quello giovanile al 20,1% (-0,4 punti). Il tasso totale è al livello più basso da dicembre 2008 (quando era al 6,9%), per i giovani da luglio 2007 (19,4%). Di converso, il tasso di occupazione sale al 61,9%, con un incremento anno su anno di 456mila posti di lavoro in più. Cala, peraltro, l’occupazione tra le donne, mentre cresce il numero di inattivi (+0,2%, pari a 19mila unità).
Un problema di salari e disuguaglianze
Il mercato, nel frattempo, non aspetta, ma il disallineamento tra domanda e offerta potrebbe costare all’Italia anche in termini di crescita. Dal punto di vista delle imprese, sempre più consistente si fa il fenomeno del cosiddetto “labour shortage”, la carenza di lavoratori, con la difficoltà dei datori di lavoro a coprire i posti vacanti e per differenti ragioni. A gennaio il mismatch tra domanda e offerta di lavoro interessa 250mila assunzioni delle 508mila programmate (49,2%) soprattutto a causa della mancanza di candidati (al 31,1%), secondo l’ultimo Bollettino del Sistema informativo Excelsior, realizzato da Unioncamere e Anpal. Il problema non è più solo, o tanto, se il mercato offre lavoro, ma se ci sono abbastanza lavoratori in grado di coprire un posto, se la loro produttività è adeguata e se lo stipendio che viene loro offerto sia compatibile con una vita dignitosa.
I contratti in attesa di rinnovo a fine dicembre 2023 sono ancora 29 e coinvolgono circa 6,5 milioni di dipendenti, il 52,4% dei dipendenti, lavoratori che continuano dunque a lavorare a condizioni ormai vecchie, con stipendi non proporzionati all’aumento del costo della vita. Il tempo medio di attesa di rinnovo, per i lavoratori con contratto scaduto, è aumentato dai 20,5 mesi di gennaio 2023 ai 32,2 mesi di dicembre 2023.
Anche l’ultimo rapporto Oxfam, diffuso nei giorni scorsi, sottolinea che, al di là dell’aumento dell’occupazione, in Italia la forbice tra ricchi e poveri si sta ampliando. Il quadro distribuzionale tra il 2021 e il 2022 mostra quasi un dimezzamento della quota di ricchezza detenuta dal 20% più povero (passata dallo 0,51% allo 0,27%), a fronte di una sostanziale stabilità della quota del 10% più ricco degli italiani. Se a fine 2021 la ricchezza del top-10% era 6,3 volte superiore a quella detenuta dalla metà più povera della popolazione, il rapporto supera il valore 6,7 nel 2022. Il profilo poco egalitario della distribuzione dei redditi colloca il nostro Paese in ventunesima posizione sui 27 Paesi membri dell’Ue. Ampi divari restano poi anche tra Nord e Sud Italia, così come tra aree metropolitane e aree interne. C’è qualcosa di più da guardare, insomma, dietro a un “semplice” dato-record.