Fotogramma
C’erano una volta i lavoretti, dalla consegna del cibo alle traduzioni, fatti per arrotondare un po’. Oggi, per un piccolo esercito di persone, circa 600mila, quel “lavoretto” è diventato indispensabile. Uno su due dichiara infatti che le piattaforme online sarebbero il solo modo per accedere al mercato del lavoro. È la fotografia scattata dal Rapporto Fairwork Italia 2024 realizzato dall’Università la Sapienza, dai ricercatori dell’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) in collaborazione con l’Oxford Internet Institute.
L’identikit dei gig workers è presto fatto: più di tre quarti sono uomini d’età compresa tra i 30 e i 49 anni, ha completato l’istruzione secondaria (45%) e il 20% di loro è laureato. La metà dei lavori riguarda la logistica (il 36% consegna di cibo, il 14% distribuzione di merci e pacchi), un altro 10% i servizi domestici e il 5% il trasporto di passeggeri. Il 48% degli intervistati dichiara inoltre che il reddito guadagnato è una parte importante del bilancio familiare e per il 32% è essenziale per soddisfare le proprie esigenze di vita. Ma non solo. Dal Rapporto è emerso che il lavoro tramite piattaforme digitali in Italia oggi è frammentato in diverse forme contrattuali di cui la prevalente è quella del lavoro autonomo con il 57,6% a cui va aggiunto il 31% dei gig workers che opererebbe «senza un contratto di lavoro scritto».
«Il lavoro delle piattaforme utilizza le tecnologie per orientare i comportamenti delle persone ma non sempre le tecnologie aiutano in meglio la crescita dei salari e delle condizioni di lavoro» ha spiegato Natale Forlani, presidente dell’Inapp. «È stata approvata una direttiva europea che orienta gli stati nazionali per far conciliare l’aumento della produttività con il miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori. Questo è un passaggio indispensabile così come il ruolo delle parti sociali con la contrattazione collettiva». In attesa di capire come si muoverà il governo quello che emerge ancora dal Rapporto è che la gig economy si caratterizza per una pluri-commitenza. Molti lavoratori operano infatti su più piattaforme, anche nella stessa giornata lavorativa, con forme contrattuali diverse.
La regolamentazione del settore passerebbe quindi dalla costruzione di un maturo sistema di relazioni industriali per il lavoro digitalizzato, rafforzando la contrattazione collettiva e migliorando tutti quegli strumenti contrattuali che consentono di migliorare le tutele (disoccupazione, malattia, maternità, sicurezza sul lavoro) anche rispetto a questioni chiave che riguardano la gestione algoritmica. Già perché gli occhi di tutti sono puntati proprio sulla direttiva che dovrebbe rendere “più democratico” l’algoritmo. Per il sociologo Mimmo Carrieri «in Italia esistono alcuni presupposti per migliorare le condizioni dei lavoratori», qualche tentativo è stato già fatto e la direttiva «rafforzerà il ruolo del sindacato». «Gli algoritmi possono essere utilizzati e possono ottimizzare alcuni aspetti dell’organizzazione del lavoro ma non devono svolgere il ruolo di gestori del tempo di lavoro, delle sanzioni o dei premi. Non devono avere una funzione pervasiva, l’algoritmo non è superabile ma deve essere democratizzato». Tutto questo mentre le organizzazioni sindacali hanno evidenziato – durante il panel moderato dal ricercatore dell’Inapp Massimo De Minicis – la necessità di riaprire il tavolo per arrivare ad un nuovo accordo di categoria superando “lo scoglio” della classificazione (dipendente-lavoratore autonomo) concentrandosi invece sulle tutele per tutte le tipologie di lavoro per piattaforme e sulla contrattazione del management algoritmico.