La traumatica escalation della rivolta in Libia ha travolto le Borse e costretto molte imprese italiane che operano nel Paese nordafricano a iniziare il rimpatrio dei dipendenti. La piazza in assoluto più pesante è stata quella milanese (-3,59%) – l’Italia è del resto il quinto investitore mondiale in Libia e il primo partner commerciale – affossata da gruppi che hanno interessi diretti o forti partecipazioni libiche. Eni, primo produttore di gas e petrolio in Libia, ha registrato un tonfo finale di oltre il 5% a 17,43 euro, mentre Impregilo è arrivata a perdere fino al 6%, scendendo a 2,31 euro. Unicredit ha perso invece il 5,75%, scendendo a 1,86 euro. In deciso calo, in ogni caso, anche Madrid (-2,33%), Parigi (-1,44%) e Londra (-1,12%). Il Gruppo Eni ha assicurato sin dalle prime ore della giornata che le attività di impianti e strutture operative proseguono «nella norma, senza conseguenze alla produzione». Garanzie che non sono però bastate a tranquillizzare i mercati. Come molte altre aziende del settore, il Cane a sei zampe ha provveduto comunque al rimpatrio dei dipendenti non operativi e dei familiari, «rafforzando ulteriormente le misure di sicurezza a tutela di persone e impianti». Misure d’emergenza prese pure da Impregilo, impegnata in opere di urbanizzazione, nella realizzazione di una sala conferenze a Tripoli e nella costruzione di 3 centri universitari in altre città del Paese. A rimpatriare è stata anche Finmeccanica, presente nell’insediamento di Abu Aisha, 60 chilometri a sud di Tripoli, dove opera la joint venture tra Agusta Westland e Liatec. Così cime il gigante anglo-olandese Royal Dutch Shell, la britannica Bp, la norvegese Statoil, l’austriaca OMV e le tedesche Siemens e Wintershall, ramo petrolifero della multinazionale Basf, pronta a interrompere la produzione, rinunciando così a un flusso di 100mila barili di petrolio al giorno. L’effetto Libia si è fatta naturalmente sentire anche sui prezzi del greggio, con il Light crude volato verso 90 dollari e il Brent ai massimi da due anni e mezzo oltre 105 dollari.
DAI LEGAMI CON LA FIAT ALLE AZIONI UNICREDIT Era il primo dicembre del 1976 quando Gianni Agnelli annunciò a sorpresa che la Fiat aveva ceduto alla Banca centrale libica il 10% di azioni in cambio di 415 milioni di dollari. Sono passati 34 anni abbondanti dallo storico «sbarco» del colonnello Gheddafi a Torino e nel frattempo il Paese nordafricano è diventato il nono fornitore dell’Italia (3,2% del nostro import) mentre Roma è in assoluto il primo cliente oltre che primo fornitore per Tripoli. L’interscambio commerciale sfiora così i 23 miliardi: le esportazioni italiane ammontano a 2,3 miliardi e le importazioni a 10,5, rappresentate per il 95% da petrolio e gas. Senza contare la finanza, naturalmente, perché i capitali nordafricani sono entrati pesantemente nelle società quotate a Piazza Affari. Nel corso degli ultimi trent’anni, dunque, i legami d’affari tra Italia e Libia sono diventati variegati e strettissimi. Cresciuti sull’asse energetico dopo la cancellazione dell’embargo nel 2003, hanno ricevuto nuova linfa nel 2008 con il «Trattato di amicizia» fra i due Paesi. A voler sbrogliare l’intreccio, tuttavia, sembra valere ancora oggi il lapidario ritratto che dei nuovi soci l’Avvocato tracciò nel lontano 1976: «Si comportarono come banchieri della migliore scuola ginevrina o londinese». La cifra dei rapporti economico-finanziari sulle due sponde del Mediterraneo è rintracciabile cioè in pochi, semplici assunti: Tripoli "genera cassa", come direbbero i banchieri della City, attingendo alla sua miniera d’oro nero. Vende un mare di petrolio – per l’Italia è il primo «rubinetto» – e i capitali in eccesso li investe in ottica finanziaria attraverso la Banca centrale il fondo sovrano Lybian investment authority. L’oliato meccanismo, per quel che riguarda Roma, è stato arricchito dall’apertura privilegiata alle aziende italiane per la realizzazione di opere infrastrutturali. A fine 2010 il suolo libico ospitava così oltre 100 imprese tricolore, prevalentemente collegate al settore petrolifero e alle infrastrutture, ma anche ai settori della meccanica, dei prodotti e della tecnologia per le costruzioni. Nello stesso anno la finanza di Gheddafi entrava dall’ingresso principale in Piazza Cordusio, sede di UniCredit Group. Ecco i due sensi di marcia dell’autostrada Tripoli-Roma: quote "pesanti" in società strategiche da un lato, grandi appalti, materie prime e maxi-commesse nell’altra direzione. Un’infrastruttura economico-finanziaria che ora potrebbe crollare insieme al regime di Muammar Gheddafi. In UniCredit, la più internazionale fra le banche italiane, i fondi di Tripoli sono virtualmente il primo azionista, con un 4,988% che fa capo alla Banca centrale libica e un altro 2,594% detenuto attraverso il fondo sovrano Lia, anche se il collegamento tra i due soci – che insieme supererebbero il tetto del 7,5% – non è mai stato confermato. Se gli azionisti libici si mantengono per ora sotto il 2% in Eni (con la possibilità di salire, però, fino al 5%), la Lybian investment authority supera invece tale soglia anche in Finmeccanica. In questo caso alla partecipazione finanziaria si sovrappone una partnership industriale: nel luglio del 2009 il colosso italiano della difesa e Libya Africa Investment Portfolio, il fondo di investimento posseduto da Lia, hanno costituito una
joint venture paritetica per una cooperazione strategica nei settori aerospazio, trasporti ed energia. Finmeccanica si è aggiudicata inoltre diversi contratti in Libia per un valore che sfiora il miliardo di euro attraverso le controllate Ansaldo Sts e Selex Sistemi Integrati. E nel campo dell’elicotteristica AgustaWestland ha messo in piedi un sistema industriale di manutenzione e assemblaggio tramite la Liatec. Significativo poi l’ingresso di Lybian Post, con il 14,8%, all’interno di Retelit, operatore di tlc specializzato nella fornitura di servizi a banda larga a enti e aziende. Corollario del «vecchio» legame con gli Agnelli, infine, la Libyan arab foreign investment company (Lafico) detiene da tempo il 7,5% della Juventus mentre ha mantenuto solo una piccola partecipazione nel Lingotto. Nel senso di marcia "industriale", invece, quello che ha portato le imprese italiane in Libia, Eni è il principale operatore internazionale nell’estrazione del petrolio e del gas nel Paese nordafricano mentre Impregilo ha costituito la società mista Libco, partecipata dalla multinazionale italiana al 60% e al 40% da Libyan development investment, per realizzare progetti del valore di un miliardo nel settore delle costruzioni. A Tripoli operano anche Trevi nell’edilizia e Prysmian (cavi e sistemi) con commesse per 35 milioni. Riservata ad aziende italiane, infine, con il Trattato di Bengasi del 2008, la costruzione dell’«Autostrada dell’amicizia», opera da 3 miliardi di dollari che per 1700 chilometri dovrebbe attraversare la Libia unendo Rass Ajdir a Imsaad. Ma su questo progetto più che su ogni altro grava l’ipoteca della famiglia Gheddafi e del suo futuro.
Marco Girardo IL GREGGIO SI IMPENNA, BENZINA SU L'incendio scoppiato in Medio Oriente sta provando massacri e sconvolgimenti politici. Una delle sue conseguenze per l’Occidente è data dai prezzi più alti di alcuni beni. Il rischio si è fatto più concreto dopo l’
escalation delle rivolte in Libia, uno Stato membro dell’Opec che esporta 1,1 milioni di barili di petrolio giornalieri. Il prezzo della qualità Brent ha toccato ieri i massimi degli ultimi due anni e mezzo, sopra i 105 dollari al barile, dopo che aveva infranto la soglia psicologica dei 100 dollari proprio durante i giorni caldi della "rivoluzione" egiziana. Rialzi che inevitabilmente andranno a infiammare l’inflazione nel resto del mondo. A ogni aumento del greggio corrisponde una stangata al distributore di benzina. Ma a salire sono anche i prezzi del combustibile da riscaldamento, di tutti gli altri derivati del petrolio, dei viaggi aerei e pressoché di ogni altro bene di consumo, poiché la merce prima di essere venduta dev’essere trasportata. L’aumento dei prezzi arriva nel momento meno opportuno per l’economia globale. La crescita infatti è ancora incerta e disomogenea, soprattutto nei Paesi avanzati, e i consumi stentano a decollare. In questo quadro una fiammata dell’inflazione rischia di trasformarsi nella mazzata finale. Al tempo stesso le banche centrali, che finora hanno tenuto il colpo in canna, potrebbero sfoderare l’arma più consona agli scenari di inflazione, andando a ritoccare i tassi per la prima volta dopo anni. Il denaro, cioè il credito, diverrebbe dunque più caro. Un effetto immediato per un’ampia platea di consumatori sarebbe l’aumento dei mutui a tasso variabile. «L’inflazione nell’Eurozona è più alta del previsto e alcuni fattori che spingono al rialzo i prezzi a livello globale potrebbero essere permanenti», ha affermato ieri il consigliere della Bce Lorenzo Bini Smaghi. «Le stime degli analisti cominciano a prezzare un possibile rialzo di 75 punti base durante il 2011, contro il previsto 0.25% della Federal Reserve», si legge in una nota di Fxcm Italia. «Una mossa che prevede un rialzo dei tassi, allo stato dell’arte attuale, potrebbe essere a nostro avviso sbagliata – scrive il broker valutario – in quanto si andrebbero ad aumentare le pressioni di spesa soprattutto su chi già si trova in difficoltà, andando a limitare ulteriormente le già poche risorse disponibili per i consumi». Il prezzo del petrolio potrebbe ancora aumentare sui rischi di un ampliamento delle rivolte in Medio Oriente. Tanto più che tra i Paesi in subbuglio vi sono almeno altri due membri dell’Opec: Algeria e Iran. I timori di un rialzo dell’inflazione sono confermati dagli acquisti sui mercati finanziari dei cosiddetti beni rifugio. L’oro ha superato ieri i 1.400 dollari/oncia, mentre l’argento è salito ai massimi da 31 anni. In rialzo anche il franco svizzero, una valuta difensiva, che ha guadagnato terreno contro euro e dollaro.
Alessandro Bonini