Si intensifica la discussione sulla cosiddetta «Web Tax», la tassa destinata a intercettare i profitti delle big del digitale proveniente dall’utilizzo dei dati degli utenti. La proposta avanzata dalla Commissione Europea il 21 marzo arriva all’Ecofin informale a Sofia del 27-28 aprile, una prima riunione a livello tecnico ha avuto luogo mercoledì scorso e martedì 17 aprile, a Milano, in un convegno organizzato dall’Associazione di cultura economica e politica Guido Carli all’Università Bocconi, Maria Elena Scoppio, Capo Unità della Direzione Generale per la Fiscalità e l’Unione doganale, illustrerà per la prima volta in Italia i contenuti del provvedimento e il lungo lavoro di gestazione, che richiamiamo in questa pagina. La proposta della Commissione, lo ricordiamo, prevede una imposta «ad interim» – in attesa di una più ampia soluzione globale in un quadro Ocse – che interesserebbe i ricavi (non i soli profitti) ottenuti dall’utilizzo dei dati degli utenti e dalle pubblicità online. Un ambito estremamente lucrativo, che però finora è sfuggito ai sistema fiscali tradizionali. Bruxelles propone di includere le società con almeno 750 milioni di euro di fatturato a livello globale e 50 nell’Ue, obbligandole a pagare Paese per Paese sulla base di un calcolo degli utenti locali e delle pubblicità online vendute in quello Stato.
Secondo il commissario europeo agli Affari economici e alla Tassazione Pierre Moscovici, un’aliquota pari al 3% produrrebbe – per l’intera Ue – un gettito di 5 miliardi l’anno. «Quello che si può dire – dice una fonte qualificata della Commissione – è che in generale c’è un’unanime riconoscimento della necessità di inquadrare fatti imponibili finora non presi in considerazione». Per il funzionario «non ci si può nascondere dietro un dito, è una questione che va affrontata anzitutto per giustizia fiscale: la proposta punta a guadagni che non sarebbero possibili senza l’input del consumatore e che sfuggono al fisco. Prima, per una ricerca di mercato di un qualunque prodotto, una società doveva pagare interviste su strada, ora invece siamo noi utenti a fornire gratuitamente su un piatto d’argento tutti i dati necessari».
Certo, c’è chi, come vari Paesi scandinavi, si preoccupa che l’imposta possa frenare lo sviluppo tecnologico. «Anzitutto – sottolinea la fonte – abbiamo previsto una soglia elevata di fatturato per evitare di colpire le piccole startup. Secondo, stiamo parlando del 3%, che oltretutto può esser dedotto come costo dalle altre imposte che la società paga. Terzo, ricordo quanto accaduto con la direttiva Moss (lo sportello unico Iva per le piattaforme digitali, che impone a queste di registrarsi in uno Stato membro, ndr), entrata in vigore nel 2015: si disse che avrebbe scoraggiato gli operatori digitali di Paesi terzi, invece non è successo niente. Anzi, il mercato digitale in Europa è sempre più in crescita». Un mercato così ghiotto che «c’è da dubitare che gli operatori terzi ci rinuncino solo per questa piccola imposta. E comunque i consumatori considerano giusta questa tassa». C’è però anche chi è preoccupato per la tempistica della proposta, avvenuta nel bel mezzo delle tensioni Ue-Usa per i dazi su acciaio e alluminio. Il timore è che Washington la percepisca come «Gafa-Tax» (dalle iniziali di Google, Apple, Facebook e Amazon). Moscovici ha già replicato che interessate sarebbero tra le 120 e le 150 società, di cui solo metà Usa. Del resto, aggiunte il funzionario comunitario, «si tratta di spiegare ai partner Usa che è meglio la nostra proposta che, come invece sta accadendo, una Ue in ordine sparso, spezzettata in tanti tipi diversi di imposte digitali nazionali».
Far passare questa WebTax sarà arduo, visto che in tema di tassazione vige l’obbligo di unanimità e l’Ue è divisa. Grandi fautori sono Francia, Italia, Spagna e Germania, autori di una lettera in autunno alla Commissione (cui si è aggiunta anche il Regno Unito), anche se Berlino negli ultimi giorni è apparsa frenare proprio per le tensioni commerciali con gli Usa. Contrari per ora i Paesi piccoli (che ritengono di aver poco da guadagnarci), i nordici di cui si diceva, il Lussemburgo e soprattutto l’Irlanda, che chiedono che l’Ue non vada avanti da sola, ma solo nel quadro l’Ocse. «Non dobbiamo farci spaventare dall’unanimità – dice un diplomatico di un grande Paese – dal 2014 abbiamo avuto 10 accordi all’unanimità in materia fiscale». La speranza è di convincere Dublino sottolineando anche che proprio il lancio della Web Tax livello Ue potrebbe fare da volano al negoziato in seno Osce per una soluzione più globale. Altrimenti resta la scappatoia della cooperazione rafforzata tra solo alcuni Paesi Ue, ma «non è quello che auspichiamo» sottolinea il funzionario della Commissione.