In Italia una cattiva "flessibilità" del lavoro ha fatto crescere le diseguaglianze. Lo scrive l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) nel capitolo dedicato al nostro paese all’interno di
In It Together: Why Less Inequality Benefits All, ricco studio che raccogliendo un’enorme quantità di dati e di ricerca economica arriva a una conclusione non scontata: l’eccessivo allargamento delle distanze tra i redditi della parte della popolazione più ricca e quella più povera non solleva solo problemi sociali e politici, ma anche economici, perché impedendo ai più poveri di sviluppare il loro «potenziale di capitale umano» frena anche la crescita del Pil.L’Italia non spicca come paese particolarmente "diseguale". Il coefficiente di Gini è l’indicatore che misura la concentrazione dei redditi, dove 0 è la situazione di reddito uguale per tutti e 1 esprime il massimo della diseguaglianza. Per l’Italia l’ultimo dato è del 2012, e il coefficiente è a 0,327 punti, con un aumento di 0,002 rispetto al 2007 (quindi praticamente invariato). L’indice è allo stesso livello del 1995, mentre segna un sensibile aumento rispetto al 1990 (quando era a 0,292). Siamo comunque di poco sopra alla media dei 33 paesi "sviluppati" dell’Ocse (0,319). Francia e Germania sono più "eguali" di noi, Spagna e Regno Unito sono invece più diseguali.Tutto più o meno regolare, dunque, ma l’Ocse nota che c’è un problema lavoro. Negli ultimi vent’anni, sottolinea l’organizzazione, l’occupazione "non tradizionale" (contratti a tempo, part-time e autonomi) è aumentata del 24%, crescita più alta tra tutte le economie dell’Ocse, mentre quella "tradizionale" del 3%. Gli anni della crisi hanno accelerato questa tendenza creando un vasto mondo di occupati "non tradizionali" particolarmente anomalo rispetto a quello degli altri paesi sviluppati: il 42% sono lavoratori autonomi, dato molto sopra la media, gli uomini sono il 49% e il 41% sono persone con un alto livello di formazione (contro il 29% della media Ocse). Questi lavoratori prendono in media compensi orari del 25% inferiori rispetto a quelli tradizionali (nella media Ocse la distanza è del 30%). Il risultato della notevole espansione di un gruppo di lavoratori sostanzialmente malpagati ha aumentato la povertà: l’Italia è seconda nell’Ocse, dopo la Grecia, per il peso delle famiglie in cui i lavoratori sono "non tradizionali" sul totale delle famiglie povere (è il 37% contro il 27% medio). Tra l’altro l’Italia ha un tasso di povertà infantile più alto della media Ocse (17% contro il 13% medio) mentre è sotto la media per la povertà tra gli anziani (9,3 contro il 12,6%).L’Ocse propone però anche la ricetta per uscire da questa situazione. Una ricetta che contiene indicazioni specifiche inquadrabili in quattro grandi principi da seguire: spingere la partecipazione delle donne al mondo del lavoro consentendo maggiore flessibilità di orari e offrendo aiuti per gestire i figli e gli anziani; favorire le opportunità di impiego combinando meglio domanda e offerta; rafforzare la qualità dell’educazione e lo sviluppo delle capacità dei lavoratori durante la loro carriera; migliorare il bilanciamento di tasse e agevolazioni fiscali spostando quote di carico fiscale dal lavoro ai consumi e ai patrimoni; creare un welfare che protegga gli individui più che i posti di lavoro, dando più aiuti agli autonomi e agli altri lavoratori non tradizionali. Tra le raccomandazioni specifiche l’Ocse consiglia anche di incoraggiare la contrattazione a livello aziendale più che nazionale.