La lunga crisi non ha colpito tutti gli italiani allo stesso modo. Ha lasciato relativamente al sicuro chi stava bene, accanendosi con particolare intensità invece sui più deboli. Ha accresciuto le diseguaglianze di reddito, ha accentuato le già ampie differenze territoriali, ha allargato ulteriormente la divaricazione tra chi è tutelato e chi non lo è affatto nel rapporto di lavoro. Si è verificato dunque qualcosa di più, di diverso, dal solito effetto "bassa marea" che ogni recessione provoca, facendo arenare tutte le barche: le grandi come le piccole. E ciò perché da noi hanno funzionato solo alcuni ammortizzatori e non altri, a causa del carattere tuttora corporativo del nostro welfare. E perché il nostro sistema di protezione sociale ha bisogno, oltre che di venire rafforzato, di essere meglio mirato e organizzato.I dati del rapporto Ocse sulle differenze di reddito pubblicati ieri lo evidenziano con chiarezza. Tra il 2007 e il 2011, infatti, la povertà in Italia è aumentata del 3%, più che in altri Paesi, con la perdita di reddito disponibile che è stata in media del 4% l’anno per il 10% della popolazione più misera, del 2% per le classi medie e solo dell’1% per il 10% più ricco. Ma a colpire sono in particolare altre due evidenze. La prima riguarda l’incidenza della povertà: tra i bambini italiani è del 17% contro il 13% della media Ocse. Si tratta del valore più alto, persino superiore a quello altrettanto preoccupante dei giovani tra i 18 e i 25 anni – 14,7% contro una media Ocse del 13,8% – mentre relativamente meglio stanno gli anziani con un’incidenza della povertà "solo" del 9,3% contro il 12,6% della media Ocse. La seconda riguarda invece il lavoro: il forte aumento dei contratti autonomi, precari e a part-time (+24%), arrivati a interessare ormai il 40% degli occupati, ha determinato un netto calo del reddito disponibile e un incremento della povertà. Fatto 100 euro il guadagno di un lavoratore a tempo indeterminato, infatti, un occupato a termine ne porta a casa 55 e un part-time appena 33. Così che il tasso di povertà tra le famiglie italiane di lavoratori non standard è di ben il 26,6% contro il 5,4% di quella di occupati standard.Cifre, dietro le quali stanno persone in carne e ossa, che confermano l’urgenza di agire per fermare il progressivo impoverimento della popolazione. Anzitutto con un trasferimento monetario significativo, un aiuto concreto, che oggi non esiste (eccezion fatta per qualche sperimentazione). In altri Paesi, il cui welfare contempla strumenti come un reddito minimo o di inserimento sociale, è stato posto un argine alla perdita di potere d’acquisto dei ceti meno abbienti e le diseguaglianze sono cresciute in misura minore. Tuttavia, l’intervento necessario non può assolutamente limitarsi a un assegno – affinché non sia una misura di mero assistenzialismo – ma va completato con azioni di inclusione sociale e di accompagnamento al lavoro, verso un’occupazione stabile e di qualità. Perché la via maestra per assicurare alle persone insieme dignità e benessere resta sempre sviluppare la loro stessa capacità di lavorare e realizzarsi. C’è però un terzo elemento, assieme all’aiuto monetario e ai servizi attivi per il lavoro, di cui occorre tener conto: la dimensione familiare. Tutte le indagini ci dicono che il rischio di cadere in povertà cresce in maniera proporzionale al numero di figli a carico e che oggi in Italia ci sono oltre un milione di minori in condizioni di miseria. Continuare a considerare il singolo – sul piano fiscale, dell’occupazione, degli interventi sociali – sganciato dal contesto familiare significa non cogliere un aspetto essenziale del problema e quindi rischiare l’inefficacia.In Parlamento è ormai avviata la discussione sul disegno di di legge per il
Reddito di cittadinanza presentato dal M5S; il governo a guida leghista della Lombardia sta studiando come introdurre un
Reddito di ultima istanza; la Caritas e il mondo dell’associazionismo hanno da tempo elaborato la proposta di introdurre il
Reddito d’inclusione sociale, sul quale si è detto pronto a impegnarsi pure il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. C’è molto più di un minimo comun denominatore tra tutti questi progetti. Individuarlo e dar vita finalmente a uno strumento concreto è un debito verso i più poveri che dobbiamo onorare.