Molte, forse anche troppe, sono le attese che hanno circondato il governo Letta. Ma dall’esecutivo che ha il primato di essere quello più giovane della storia repubblicana (con un’età media di 53 anni) ci si aspetta, anche e soprattutto, un autentico "piano d’azione" capace d’imprimere una svolta a favore appunto dei giovani. Di quelle generazioni cioè d’italiani 20-30enni che, nel breve volgere di pochi anni, hanno perso tutte le certezze-garanzie dei loro padri: il "posto fisso", una pensione sicura, basi solide per costruirsi una famiglia e una casa, una certa linearità di carriera, e altro ancora.A quasi 120 giorni dal suo insediamento (il 28 aprile scorso), e alla vigilia di passaggi cruciali per le sue prospettive e per le scelte di politica economica, vogliamo sottoporre il governo guidato da un premier nato nell’immediato pre-Sessantotto (a fronte dei due premier precedenti che avevano visto la luce sotto il fascismo) a una sorta di "tagliando generazionale". Una verifica sull’efficacia delle misure adottate finora per quei 6 milioni e passa di italiani che, assieme ai disoccupati ultra 40enni, sono coloro che più stanno patendo i colpi di maglio della crisi più feroce del Dopoguerra. Un giovane su due al Sud non lavora - ai livelli di Grecia e Spagna - e nel 2012 è tornata a intensificarsi la fuga dei nostri "talenti", con un
boom di espatri del +28,3% rispetto al 2011 nella fascia d’età 30-40 anni.Diciamo subito che il giudizio complessivo è "moderatamente positivo". Senz’altro positive sono le ripetute sottolineature, fatte dal premier e da vari suoi ministri, della necessità di "spendersi" per fare qualcosa a beneficio dei connazionali più giovani. Non una sorpresa per un Enrico Letta che più volte ha parlato di «generazione Erasmus» (dal nome del programma europeo per gli studi all’estero) e che già due anni fa (all’assemblea di Coldiretti) ebbe a rimarcare che «l’Italia degli anni Sessanta cresceva avendo i giovani nel motore di sviluppo del Paese, oggi li ha messi in panchina».
IL LAVORO.Da quella panchina, prima o poi, i giovani devono alzarsi, però. Per farlo un ruolo di primo piano spetta senza dubbio ai provvedimenti che favoriscono in modo diretto l’occupazione. E qui il governo si è mosso. La "legge Fornero" (ministro del Lavoro nel governo Monti) si era prefissa il lodevole intento di scoraggiare la tendenza delle aziende ad assumere soprattutto con contratti a tempo. Nell’applicazione pratica però, a causa della recessione imperante, l’allungamento a 60-90 giorni della pausa fra un contratto a termine e l’altro e l’irrigidimento delle condizioni poste alle aziende per poter assumere con flessibilità, ha prodotto un calo rilevante dello
stock di contratti a tempo determinato, senza incentivare in alcun modo le imprese ad assumere. Il "decreto Giovannini" ha corretto queste storture e, in più, ha varato incentivi fiscali per 794 milioni di euro, l’occorrente per finanziare un
bonus fino a 650 euro al mese (per 18 mesi) per assumere giovani in condizioni svantaggiate sotto i 29 anni. È questa la misura-
clou messa in campo in questi primi 4 mesi. L’obiezione, in qualche modo scontata (dovendosi scontrare con le ben note ristrettezze di bilancio), è che servirebbe una dotazione per lo meno doppia. Senza contare che si tratta in larga parte della riprogrammazione di fondi europei già stanziati, spalmata su un arco temporale di tre anni (di questi, solo 148 saranno i milioni disponibili già quest’anno). Per dare un’idea, è una cifra pari soltanto allo 0,1% della nostra spesa pubblica. Peraltro, come per ogni provvedimento, non sono nemmeno fondi subito disponibili: bisognerà attendere prima i decreti attuativi. Ma è in particolare in sede Ue, nel Consiglio di fine giugno, che Letta ha battagliato per far arrivare all’Italia 1,5 miliardi di euro per la "Garanzia per i giovani", un piano per dare loro un’offerta di lavoro, apprendistato o tirocinio entro 4 mesi dall’uscita dell’università o dalla perdita del lavoro: l’inconveniente è che sono soldi che arriveranno in tempi medio-lunghi. Da segnalare, infine, i 168 milioni messi a disposizione per borse di tirocinio formativo per i Neet, quei 2,2 milioni di giovani che non studiano più e nemmeno lavorano, e gli 80 milioni per misure di autoimprenditorialità.
IL WELFARE.Qui il giudizio va sospeso. Una nuova riforma delle pensioni, a quanto pare, non si farà. Il ministro Giovannini ha accennato a possibili correttivi, ancora non è dato sapere quali. E dire che di modifiche pro-giovani c’è bisogno. Costoro avranno l’intera pensione calcolata col metodo contributivo, che di per sé abbassa il "tasso di sostituzione", cioè il rapporto percentuale fra l’ultimo stipendio percepito e il primo assegno previdenziale: si stima che potrà arrivare al 40% - il 60% al massimo - dello stipendio. C’è poi un altro elemento troppo spesso trascurato della "riforma Fornero" di fine 2011. Con quell’intervento per aver diritto a una pensione tutti, uomini e donne, devono maturare ora un’anzianità contributiva di almeno 20 anni: ma quanti dei giovani di oggi potranno vantarli? Non ha trovato attuazione, poi, la cosiddetta "staffetta generazionale". In alcune aziende italiane è già una realtà e il ministro Giovannini vi ha accennato più volte, ma la sua "non partenza" può esser letta in positivo: in primo luogo per il fattore-costi (la quota di contributi del lavoratore anziano non sarebbe coperta da quelli versati per il giovane assunto
part-time, creando uno squilibrio), ma anche per l’idea che ne è alla base, contraria a quella che dovrebbe essere l’evoluzione dell’impresa nel mondo avanzato, con la permanenza sempre più lunga in azienda del lavoratore <+corsivo>
senior<+tondo> e l’ingresso dei giovani in posizioni differenti.
IL CREDITO.È il settore più sguarnito. E problematico. Finora il ministero dell’Economia non ha previsto nulla su questo fronte. Si vocifera di un prossimo provvedimento per potenziare il fondo per l’acquisto della prima casa destinato alle coppie di giovani sotto i 35 anni. Il fondo esiste dal 2010, ma non è mai realmente decollato per una serie di difficoltà burocratiche. In campo potrebbe essere messa una dotazione fino a 5 miliardi della Cassa depositi e prestiti, da destinare appunto a favorire l’accesso al credito, cioè a quei mutui che si sono dimezzati negli anni della crisi.
L’ISTRUZIONE.La quarta grande questione generazionale riguarda l’abbattimento dei muri che ancora dividono le università e il mondo della formazione del mercato del lavoro. E anche qui resta parecchio da fare: si segnalano, per ora, solo i 15 milioni messi nel dl-lavoro per promuovere forme di alternanza fra studio e lavoro per gli studenti iscritti nei corsi di laurea 2013/14. Ma nulla è stato fatto per migliorare la qualità dei finanziamenti pubblici agli atenei, che oggi sono legati a parametri solo per un modesto 7 per cento.