Dici "giovani" e pensi alla "disoccupazione". È un’associazione mentale e verbale divenuta (purtroppo) automatica negli anni della Grande Crisi, quando il numero dei ragazzi senza lavoro è cresciuto progressivamente dal 2008 in poi, fino a sfiorare adesso la percentuale-incubo del 40%. Eppure quando si pronuncia la parola "giovani", ancora oggi, dovrebbero venire in mente anche espressioni come "risorse per il Paese", "capitani d’impresa", "creatori di ricchezza" e "protagonisti dello sviluppo". Non lo sostengono solo gli esperti o gli economisti ottimisti, ma lo confermano i dati: una recente indagine dimostra che nell’ultimo anno i 3,8 milioni di giovani occupati hanno prodotto un valore aggiunto all’economia italiana quantificabile in 242 miliardi di euro, ovvero il 17,2% del Pil nazionale. Una parte significativa di questo contributo determinante che le nuove generazioni portano al Prodotto interno lordo nazionale è data dalla crescita del numero di aziende guidate da under 35: oggi sono 675mila, il 10% in più rispetto all’anno scorso, e si è stimato che altre 100mila realtà siano in attesa dell’occasione propizia per mettersi sul mercato.I giovani, insomma, producono ricchezza. E il vero rammarico, semmai, è quello che potrebbero fornire un apporto ancora più consistente se solo avessero maggiori opportunità professionali. Gli indicatori di prospettiva che arrivano dal mondo del lavoro, in questo senso, non sono molto incoraggianti. Uno studio di Unioncamere, diffuso ieri, ha calcolato che nel 2013 sono previste nel settore privato 130mila assunzioni di dipendenti al di sotto dei 30 anni. Rispetto al 2012 il numero di nuovi contratti si ridurrà del 2,7%. «Ma la quota resta comunque alta – ha affermato Ferruccio Dardanello, presidente di Unioncamere – ed è interessante notare che, nonostante il numero di entrate si restringa ancora, sono in aumento le offerte nei profili professionali più qualificati e sulle nuove frontiere delle tecnologie, ovvero in quei campi dove i giovani possono fare la differenza in un’azienda». I comparti dove sarà meno difficile trovare un impiego saranno il manifatturiero (34mila) e i settori di telecomunicazione, informatica e servizi avanzati (13mila).In una strategia che punta ad aumentare l’occupazione giovanile e, di conseguenza, a far crescere l’economia del Paese, non possono mancare azioni di contrasto alla fuga dei cervelli. Secondo gli ultimi dati dell’Aire (Anagrafe italiana residenti all’estero) nel giro di un anno le emigrazioni dalla penisola sono salite del 30%. Si è passati dai 60.635 espatri del 2011 ai 78.941 del 2012. Sei su dieci scelgono l’Europa e la meta preferita resta la Germania. Il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha calcolato che i trasferimenti dei nostri migliori talenti sono costati allo Stato 5 miliardi di euro: «Una cifra enorme regalata ai competitor stranieri», ha spiegato il leader degli industriali.Per far comprare un biglietto di ritorno ai tanti che hanno scelto di scappare servono interventi a tutto campo. Oltre a incentivare la nascita di start up occorrerebbe favorire il passaggio generazionale alla guida dell’azienda. Secondo una ricerca della Cna il 47% degli imprenditori artigiani non sa a chi cedere il timone. Eppure sarebbero due milioni i potenziali imprenditori tra i ragazzi di 18-35 anni pronti a subentrare al comando, ma il 93% è frenato dalla difficoltà legate al credito necessario, al carico fiscale elevato e all’eccesso di burocrazia.