Il piano di TuNur prevede la costruzione di tre elettrodotti. Il più breve collegherebbe la Tunisia a Malta, che dal 2015 è collegata alla Sicilia e quindi al Continente. Il passaggio successivo è un elettrodotto da 600 km fino a Montalto di Castro. L’ultimo collegamento, più lungo, arriverebbe in Francia. Nelle centrali solari termodinamiche speciali specchi (eliostati) riflettono i raggi solari concentrandoli su un ricevitore che contiene dei sali speciali che si surriscaldano. Il calore prodotto viene utilizzato per scaldare dell’acqua e trasformarla in vapore. Il vapore fa girare una turbina producendo elettricità. L’impianto di questo tipo più grande nel mondo, in California, ha una potenza di 392 Mw, circa un quarto della potenza dei reattori nucleari più moderni. In Italia c’è un piccolo impianto solare termodinamico (5 Mw di potenza): la centrale Archimede, realizzata da Enel ed Enea in provincia di Siracusa e operativa dal 2010.
Catturare l’energia del sole tra le sabbie del Sahara, trasformarla in elettricità e condurla fino alle prese di corrente delle famiglie europee. L’azienda anglo-tunisina TuNur si è mossa per trasformare in realtà il sogno allo stesso tempo ambientalista e globalista di Gerhard Knies, il fisico delle particelle tedesco che trent’anni fa, sconvolto dal disastro di Chernobyl e in cerca di alternative alle fonti fossili e nucleari, calcolò che il più grande deserto del mondo in sei ore riceve dal sole più energia di quanta l’umanità ne consumi in un anno intero. È la seconda volta che si avviano i lavori per concretizzare l’intuizione di Knies. Il primo tentativo è andato molto male. Nel 2009 ci ha provato Dii Desertec Gmbh, consorzio di giganti dell’industria e della finanza tedesche ed europee – tra gli altri c’erano Siemens, E.On, Deutsche Bank ma anche la spagnola Abengoa e l’italiana Enel Green Power – appoggiato dall’omonima fondazione, che dagli anni Ottanta riunisce scienziati, politici ed economisti attorno al progetto di interconnessione delle reti elettriche nordafricane ed europee con l’obiettivo di sfruttare l’enorme potenziale rinnovabile del deserto per ridurre la dipendenza di elettricità da fonti fossili. Il progetto di Dii Desertec prevedeva 400 miliardi di euro di investimenti per la costruzione di centrali ad energia solare termica nel deserto capaci di soddisfare il 15% del fabbisogno energetico europeo entro il 2050. Ma tra crisi economica e peggioramento della situazione politica nordafricana il piano si è arenato molto presto. Nel 2012 sono iniziate le uscite dal consorzio. Delle cinquantadue aziende che partecipavano, oggi ne sono rimaste solo tre. Nel 2013 lo ha abbandonato la stessa fondazione Desertec: voleva evitare «il gorgo di cattiva pubblicità » in cui la stava cacciando il fallimento del progetto. TuNur non ha dietro i colossi industriali del consorzio tedesco: è un’alleanza tra la britannica Nur Energie, specializzata nello sviluppo di centrali a energia solare, la franco-tunisina Glory Clean Energy, che promuove progetti di energie rinnovabili, e la maltese Zammit, finanziaria con interessi che vanno dall’energia all’automotive. Ma con un piano meno faraonico conta di potere riuscire dove Dii Desertec ha fallito.
Siamo alle fasi iniziali. Lo scorso 31 luglio l’azienda ha consegnato al ministero dell’Energia tunisino la richiesta di autorizzazione per realizzare un complesso di centrali solari termodinamiche da 4.500 Megawatt di potenza complessiva per esportare elettricità in Europa. Il gruppo ha trovato l’accordo con l’ente che gestisce un’area desertica nella parte meridionale della Tunisia — dalle parti di Rjim Maatoug, nel governato Kebili, area dove tra l’altro da tempo è molto attiva la Cooperazione italiana — nel quale intende costruire le centrali. La tecnologia scelta è quella del solare termodinamico, dove degli specchi concentrano l’energia solare su delle torri contenenti sali fusi che si scaldano ad altissime temperature così da generare vapore alimentando turbine che producono elettricità. La tecnologia del solare termodinamico è già stata ampiamente sperimentata, soprattutto negli Stati Uniti. Sulla produzione elettrica non ci sono rischi. La parte più complicata è quella che riguarda il trasporto del-l’elettricità in Europa. La prima fase del progetto, che secondo l’amministratore delegato Kevin Sara può essere completata già per il 2020 con una spesa di 1,6 miliardi di euro, prevede la costruzione di due impianti, ciascuno da 125 MW di potenza, e la connessione della centrale a Malta tramite 400 chilometri di cavi ad alto voltaggio. Raggiunta l’isola, l’elettricità può arrivare in Italia, e quindi nel resto d’Europa, tramite l’elettrodotto Ragusa-Maghtab, operativo dal 2015. Nei piani di TuNur la potenza complessiva dell’impianto potrebbe essere raddoppiata a 500 MW.
Le successive fasi del progetto di Tunur, il cui responsabile ingegneristico è l’italiano Maurizio Scaravaggi, sono più complicate. Portando la potenza complessiva delle centrali a 4.500 Megawatt, il gruppo anglo-tunisino ipotizza prima un collegamento elettrico da 600 chilometri tra la Tunisia e il centro Italia (aggancerebbe la rete nazionale a Montalto di Castro) e poi un elettrodotto ancora più lungo diretto verso il Sud della Francia. Se tutto fosse completato le centrali tunisine potrebbero soddisfare i consumi di 5 milioni di famiglie europee. Già nella sua versione “di base”, cioè i primi 250 MW e il collegamento all’Europa via Malta e Sicilia, il progetto è sufficientemente ambizioso. Il piano di TuNur prevede la costruzione della maggiore centrale non americana a energia solare termodinamica e la realizzazione del primo elettrodotto “lungo” tra le reti elettriche nordafricane ed europee.
Ad oggi l’unico collegamento funzionante è quello tra Marocco e Spagna attraverso il canale di Gibilterra, mentre il progetto di elettrodotto più vicino alla realizzazione, con il coinvolgimento di Terna, è quello che collegherebbe Tunisia e Italia ma lungo una linea diversa da quella ipotizzata dagli anglo- tunisini: il cavo arriva in Sicilia, non nel Lazio. Ci sono variabili che vanno oltre la dimensione tecnica. Il concetto alla base del Desertec – produrre energia solare in Africa per alimentare l’Europa – è stato criticato come nuova forma di colonialismo economico, diverso dal tradizionale sfruttamento degli idrocarburi solamente per il suo essere basato su una fonte rinnovabile. Esiste sempre il rischio che la ricchezza creata in Nordafrica finisca nelle mani di governanti poco democratici e molto corrotti, peggiorando la situazione dei popoli coinvolti. Anche dal punto di vista dell’Unione europea investire su un progetto che prevede l’importazione di energia elettrica dal Nordafrica è una scelta che può essere rischiosa: un peggioramento delle relazioni o della situazione politica nell’area può portare a ricatti o a un’interruzione delle forniture. Guardandolo con un occhio ottimista e non disincantato però il progetto ha comunque più aspetti positivi che problematici. Soprattutto perché è un piano che presuppone una cooperazione tra Europa e Africa per un obiettivo positivo, come la produzione di energia da fonti rinnovabili, attraverso un’interconnessione delle reti elettriche che sarebbe un nuovo fondamentale ponte infrastrutturale ed economico tra le due sponde del Mediterraneo.